domenica 13 maggio 2007

DAVID TORN : What Means Solid, Traveller?



L'errante alla ricerca del significato del concetto di "solido" in un mondo fatto di totale astrazione ed evanescenza. Interpreterei così il quesito che è anche il nome di questo album. Raggiungere lo stato solido, la pienezza della vita, passando prima attraverso l'impalpabile, la sfuggevolezza del non-concreto, del pre-materico che si estrinseca in soundscapes elaborati, in sovrastrutture indecifrabili. David Torn gioca con i pezzi di un puzzle che si tramuta in mappa per il viaggiatore, costretto a toccare diversi luoghi, diversi stati mentali, diversi livelli di coscienza necessari alla traversata. Scorrendo i titoli dei brani si ha quel senso di movimento, di viaggio interiore tra stazioni, ponti che bruciano, giorni insabbiati in cui il vento spazzerà i sedimenti e ci renderà liberi. Le textures (come ama chiamarle proprio lo stesso compositore) sono elaborate, cariche di effetti e riverberi che sbocciano anche in lassi di tempo più lunghi del previsto, lunghi bordoni elettrici si distendono tagliando l'atmosfera (Elsewhere, Now Than Waving, a metà tra Tangerine Dream e Popol Vuh). La voce di Torn si mimetizza in più frangenti, scandisce qualche verso, ma è vessillo di desolazione nei gospel in slide di Tiny Burns A Bridge (uno dei momenti più alti di What Means Solid Traveller?) e In The Sand Of This Day I Will Not Be Free. Il background jazzistico del chitarrista è disgregato e riordinato secondo criteri adatti ad architetture fitte di incastri e loop ritmici in una commistione di stili e tecniche impressionanti, impreziositi da corrosive manipolazioni del timbro della chitarra che diventa mezzo per esperire soluzioni abnormi ed originali. . ...Til You Are Free riesuma Hendrix scomponendolo con la sintassi di Robert Fripp, che è vivida presenza nei fuochi che divampano in Spell Breaks With The Weather e Gidya Hana (che si tinge di armonie arabiche su un tessuto jazzato) e nel retaggio di Such Little Mirrors. C'è una forte indole cinematografica, aspetto questo che Torn svilupperà negli anni a venire lavorando alle colonne sonore di "The Order" e "Friday Night Lights". I suoni generati creano così atmosfere quasi aliene, stranianti ma estremamente fascinose, in cui le particelle di aria paiono dilatarsi, assumere nuove forme, mutare il loro stato in consistenti molecole che migrano sospese. Tornato di recente con un altro, eccezionale album intitolato "Prezens" (dove la complessità di strutture totalmente fuori da ogni canone convenzionale regna sovrana), David Torn è uno tra i più geniali ed innovativi maestri della sei corde, scultore di forme sonore indecifrabili, regolate dal solo codice della libera espressione. Che sia la libertà la vera solidità nella dura dimensione dell'esistere?

(CMP, 1996)
Spell Breaks With The Weather / What Means Solid, Traveller? / Such Little Mirrors / Tiny Burns A Bridge / Gidya Hana / Each Prince, To His Kingdom, Must Labor To Go / Particle Bugs @ Purulia Station - In The Sand Of This Day / In The Sand Of This Day I Will Not Be Free... /...Til You Are Free / Elsewhere, Now Than Waving

sabato 5 maggio 2007

IMPRESSIONS #2

BUGGE WESSELTOFT : It's Snowing On My Piano
(Act, 1998)

Non ancora giunto al downtempo electro-jazz dell'eccelso "Moving" di sei anni più tardi, il norvegese Bugge Wesseltoft, mastermind dell'etichetta Jazzland, una tra le migliori realtà del panorama jazz attuale, dipinge col suo secondo capitolo discografico un delicato affresco dalle tinte pastello quasi sbiadite, tentando l'esplorazione del suo lato più intimista. Dodici brani di solo grand piano con architetture essenziali in cui è la sola melodia portante (raramente sostenuta da una ritmica) a fungere da materia prima. Il jazz è qui proposto in una veste inusuale e al suo ceppo possono essere ricondotti solo semplici fraseggi. È più che altro una continua ode allo spirito in salmi contemplativi e trasognati, in cui note lievi si congiungono in un puzzle armonico equilibrato e morbido, viaggiando su candide progressioni che si poggiano dolcemente, proprio come la neve che cade cauta ed ordinata. Un approccio raffinato e mai altezzoso o distaccato. Melodie impalpabili ma allo stesso tempo pulsanti, capaci di far vibrare le corde dell'anima. Nevica sul pianoforte di Bugge ed il gelo, stavolta, ci scalda il cuore.


DEEP TURTLE : Turkele
(Zerga, 2003)



Parrebbe difficile prendere sul serio un gruppo che adotta, come ragione sociale, la storpiatura del nome di una delle band più altisonanti della storia del rock e che, tradotto, significa "tartaruga profonda". E invece i Deep Turtle vanno assolutamente presi sul serio. Inverecondi seguaci (ma non in maniera impersonale) del verbo dei NoMeansNo, da cui mutuano il lato più minimalista ed improvvisato, si formano nei primi anni novanta, si scioglieranno nel '96 per poi tornare nuovamente insieme nel 2001. Attualmente attivi, ciò che rende questa band abbastanza peculiare per parlarne, oltre all'interessante musica, è il fatto che, essendo finlandesi i loro testi siano scritti interamente in spagnolo. Per loro è un vanto e non ne dubitiamo affatto. Scendendo ad un livello sonoro, Turkele va ad incastonarsi in quella cortina che c'è tra il post-rock, il post-hardcore fugaziano e lievi cenni jazzati. Il tutto è miscelato con arguzia e la giusta dose di umorismo (le andature giocose di Perdido) che non guasta mai. Con canzoni che si pongono contro lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali da parte dell'uomo e, soprattutto, in opposizione alle pericolose politiche ambientali e guerrafondaie degli Stati Uniti, le tartarughe intagliano brani dove fraseggi convulsi dall'afflato latino imperversano a più riprese nelle maglie strumentali, richiamando non poco gli stilemi dei Mars Volta (Pesadilla, Cupuvis, Martillos Malditos). Stacchi e ripartenze nervose, voce caustica, basso sferzante e divagazioni rumoristiche in sette brani per poco più di venti minuti. Gente più seria di quel che si possa pensare a priori.


TREPHINE : Trephine
(Public Guilt, 2005)


La musica dei Trephine da Baltimora è davvero incalzante e tosta. Ennesima prova di come il concetto di prog-rock stia mutando, assumendo ora sempre più nuove e svariate forme che esulano dai formati classici intrisi di virtuosismo, incursioni sinfoniche e dreamtheaterismi assortiti. Qui all'esordio su Public Guilt con l'opera eponima, i quattro strumentisti statunitensi non vanno tanto per il sottile. Nel loro sound si trova di tutto: noise-core, thrash metal, oscurità doom (Goes To Hell, Mr Wiggles (part one) nasce lenta e cupa), zigrinature math, complessità ritmiche e tempi contorti, facendo confluire un simile impasto in dinamiche costruzioni prog. Si provi ad immaginare una fusione tra i geni di Mastodon, Clutch, Dysrhythmia e Melvins che genera così un ibrido strumentale furibondo e carico di nervi (Age Of Reptiles, Metal Detector, Resident Advisor), escoriante ed affilato, una dimostrazione di potenza mista a classe degna di un gruppo dalla spiccata personalità, nonostante le ascendenze. Speriamo che in futuro non pochi possano accorgersi del loro creativo estro.