lunedì 20 dicembre 2010

NADJA & OvO : The Life & Death Of A Wasp


Da due creature tanto particolari non potevamo che attenderci un parto tanto sbilenco quanto fosco e malato. Più che il processo vitale di una vespa questo lavoro sembra un restringimento di campo sulla sua sola sofferente agonia. I canadesi Nadja di Aidan Baker e i transfughi italiani Bruno Dorella e Stefania Pedretti, also known as OvO, danno vita ad un opprimente scenario che non ha alcuna pretesa di accessibilità, che non concede minimi spazi alle melodie, che è pura crittografia sonora. The Life & Death Of A Wasp è un trip psicotico diviso in quattro movimenti che s'innesta nell'alienante filone dell'avantgarde contemporanea. I Nadja imbastiscono spessi bordoni di suono che si intrecciano col drumming ispido di Dorella, che è supporto per i sinistri soliloqui della Pedretti, a volte alle prese con formicolii vocali che rimandano agli incubi insettiformi di Cronenberg, altre volte si profonde in indemoniati spoken da autentica strega, altre ancora in sinistre salmodie in growling. Si materializzano così gli inferi della psiche, larghe zone d'ombra che si espandono progressivamente e che non lasciano scampo ad alcuna forma di vita; ogni cosa appassisce e cade in rovina una volta raggiunta dalla tenebra. C'è parecchia aria doom tra questi solchi: è minimale e scarna quella di A Wasp Flying Around The Sugar, è marziale e soffocante quella di Put Some Sugar In My Cup, Please. La fisionomia dei brani è sfocata come lo sono i tratti di un volto al di là di un vetro sabbiato: non ci sono strofe, tanto meno ritornelli, sono il percorso di un fluido appiccicoso che sgorga dagli interstizi del pavimento e il rischio di rimanervi incollati come mosche non è poi così remoto. Della vita della vespa, tornando a far riferimento al titolo, come vi abbiamo detto, non v'è alcuna traccia, a meno che questa non sia funestata dagli incubi e oppressa dagli spettri. Spettri che si manifestano negli echi iniziali di Drowned In Coffee, che cresce d'intensità fino a rasentare l'inabissamento di un gigantesco iceberg con centinaia di corpi umani intrappolati all'interno, piccole e smilze larve dal volto rappreso in un silenzioso grido di raccapriccio. Servono forti e allenate difese mentali per non lasciarsi trascinare giù, tra le fiamme dell'inferno, una volta che Nadja e OvO vi avranno afferrato la testa con una maligna mano artigliata. E a quel punto ogni via di fuga sarà sbarrata, e voi intrappolati dentro. O ancora peggio, sepolti vivi.

(Vendetta, 2010)

A Wasp Flying Around The Sugar / Trapped In The Jar / Put Some Sugar In My Cup, Please / Drowned In Coffee

venerdì 10 dicembre 2010

PSYCHOCEAN : "Luminescence" out now!


Da venerdì 26 novembre 2010 è disponibile in download gratuito su www.psychocean.org “Luminescence”, primo full-length degli Psychocean a tre anni di distanza dall'ep “Embryonal Confinement”.

Sul nuovo album compare, in veste di special guest, il cantante dei Novembre Carmelo Orlando, alla voce in alcune parti di “Luminescent Twin”, mentre le due copertine, fronte e retro, sono opere del pittore Tobia Ravà.

L'album è pubblicato in download gratuito su licenze Creative Commons e in via autoprodotta. La copia fisica del cd comprende l'artwork più un cd-r vergine serigrafato in nome della separazione tra l'essenza, la musica, e l'accessorio, il supporto plastico.

Questa è la tracklist:
1. Ganymede
2. Fractal
3. Black Sidereal Abyss
4. Hypnagogic Hallucinations
5. Meridian Zero
6. Opalescence
7. Luminescence
8. Faceless The King
9. Luminescent Twin (feat. Carmelo Orlando)

L'album è ascoltabile e scaricabile anche da Jamendo.

lunedì 29 novembre 2010

ISOBEL CAMPBELL & MARK LANEGAN : Live @ Tunnel, Milano, 28 novembre 2010


Le distanze che ho calcolato prima di mettere la mia barba fuori dalla porta di casa sono ben diverse da quelle che realmente percorro per giungere al Tunnel. E, avendo calcolato male le distanze, realizzo già a metà tragitto che gli ultimi due bicchieri d'acqua bevuti prima di immettere la sopracitata barba sul marciapiede sono stati un errore. Un grave errore. Mentre il freddo mi sta erodendo il viso, la vescica ha raggiunto dimensioni ipertrofiche che quasi mi costringono a camminare piegato come un mendicante. E ho ancora un bel po' di strada da macinare. Arrivo, ma c'è il consueto imprevisto fantozziano: una consistente fila all'entrata – e menomale che durante il pomeriggio la pioggia ha smesso di cadere – che in normali modalità sarebbe anche gradevole, ma star farmi al freddo con un gavettone assiso nel basso ventre, si può ben capire, è una tortura che neanche la più diabolica mente cinese avrebbe potuto architettare. Entro, prendo il mio accredito, lascio il giubbotto al guardaroba e mi fiondo alla toilette. Il preambolo sulla minzione è necessario per riferire della causa che mi fa perdere le prime battute di questa serata. È infatti mentre reco sollievo al mio corpo espellendo i liquidi in eccesso, in nome della guerra senza frontiere alla ritenzione idrica, che Harper Simon dà inizio al suo set. Tocca a lui riscaldare gli animi della serata, almeno sulla carta. Ahimè, però, Harper Simon non riscalda proprio un bel niente ed in molti tra il pubblico si augurano che torni piuttosto a riscaldare la poltroncina in camerino il prima possibile, me compreso. È da solo, voce e chitarra acustica, esegue sei o sette canzoni che non si distinguono l'una dall'altra tanto sono simili e prive d'identità melodica. Stilisticamente è un incrocio tra Simon & Garfunkel e John Martyn, con qualche sfumatura vocale che richiama Thom Yorke, ma i paralleli altisonanti vanno presi con pinze e guanti. La gente affluita al Tunnel, che mi pare registri il pieno, non si cura della presenza del povero Harper Simon, letteralmente sopraffatto dal chiacchiericcio incessante, cui si somma un volume troppo basso che non lo aiuta a farsi considerare. Noioso e monocorde, dopo venti minuti dal suo inizio il set giunge al termine. Bye bye Harper Simon, temo che di te non sentirò parlare per un pezzo, stando così le cose.

Ore ventidue e Mark Lanegan e Isobel Campbell fanno il loro ingresso sulla ribalta con la band che li accompagna. Lui è serio come fosse un calco di gesso, lei è meno bella che in foto, me lo si conceda. Partono coi primi quattro solchi dell'ultima fatica, quell'”Hawk” che m'ha davvero entusiasmato, ma partono a mio avviso coi pezzi migliori e qui storco un po' il naso. Poco male, You Won't Let Me Down Again si conferma un gran pezzo, compatto, southern fino al midollo. Dal vivo la carica emotiva dei brani rimane la stessa, anzi, emerge con maggiore vigore l'anima blues e bucolica da entroterra americano, quello dei granai e dell'essenza yankee. Nel frattempo, nell'anfratto di platea in cui mi trovo ubicato, tra chi passa a destra, chi passa a manca, chi si sposta di qui e chi di là, finisco accanto a due signorine più che trentenni. Una bionda e una mora. Si danno gomitate complici ad ogni ingresso vocale di Lanegan proprio come se stessero sfogliando un numero di Cioè segnalandosi il belloccio del momento, ma la cosa peggiore sono i balletti che la mora comincia ad improvvisare ad ogni brano, attirandosi gli sguardi severi di chi mi sta accanto. La situazione ha un coefficiente di irrealtà piuttosto alto, tenuti presenti i ritmi blandi della musica proposta dai due musicisti americani. Vorrei informarla che ha sbagliato posto, che non è il concerto dei Motley Crue questo, soprattutto quando mi urta nel bel mezzo di uno dei tanti appunti che prendo al buio (e non sto qui a dire a quali abilità di decifrazione dovrò ricorrere una volta a casa al cospetto di quegli scarabocchi). Si cheterà più avanti, con buona pace dei miei appunti – che però peggiorano in calligrafia. Nel frattempo Isobel e Mark stanno dando una bella spolverata al loro repertorio proponendo Honey Child, What Can I Do? direttamente dal loro esordio, e a seguire Ballad Of Broken Seas, al termine della quale Lanegan proferisce finalmente le sue prime parole, ovvero un “thank you” avvolto nel suo timbro baritonale. E siamo già all'ottavo brano in scaletta. Per tutta la durata dell'esibizione terrà una maschera di ghiaccio, la mano sinistra sul microfono, la destra ad impugnare a metà altezza l'asta, racchiuso nel suo carapace che è invero anche uno spesso muro che lo separa dal pubblico. Finisce “Ballad Of Broken Seas” e all'improvviso l'ex frontman degli Screaming Trees si dilegua nel backstage, lasciando la scena alla sola Campbell, che si immerge in Black Mountain e Saturday's Gone, anch'esse estratte dal primo full-length. Lanegan torna e tornano anche i fischi e gli inneschi di frequenza che tormentano a più riprese l'esibizione dei nostri. I quali tirano fuori una Back Burner bella fumosa (qui siamo al secondo lavoro, “Sunday At Devil Dirt”), poi Time Of Season che sa tanto di Lynyrd Skynyrd e di nuovo un altro breve passo temporale indietro con Salvation. Scatta l'irresistibile Get Behind Me e qui non posso mica dar torto al balletto della mora, che si scatena al ritmo del dirompente rockabilly ordito dalla cricca sul palco. Sedici brani in settantacinque minuti e il set finisce qui. Fine? No, non è finita, è tempo di extra richiamati a gran voce da un pubblico che ne vuole ancora, sottoscritto compreso. E allora Lanegan e la Campbell tornano sul palco e ripartono con la notturna e affascinante Revolver, rimanendo ancorati all'esordio con la nenia di (Do You Wanna) Come Walk With Me? prima, e la tomwaitsiana Ramblin'Man poi, con la Campbell che fischietta che è una meraviglia. Ma il colpo di scena, la sorpresa finale, la ciliegina sulla torta, un-altro-luogo-comune-per-esprimere-stupore sta arrivando e, giuro solennemente senza incrociare neanche un misero pelo del mio giovane e candido corpicino, che non me lo sarei immaginato: a) perché è una delle mie canzoni preferite di Mister Lanegan, quindi mi pare una manna miracolosa che suonino proprio quella; b) perché non tengo in conto una rovistata nel Lanegan solista. Insomma, dulcis in fundo, è tempo di una Wedding Dress ancora più acida e graffiante di quella contenuta in quel capolavoro che è “Bubblegum”, con quelle chitarre in crunch che sfrigolano e trasudano elettroni, dipanandoli in ogni dove. The end could be soon, we'd better rent a room, so you can love me, non posso non cantare dopo quel sinuoso Ba dadadada, ba dadada dadadada. Ah, che soddisfazione, mi gaso quasi allo stesso modo di quando ascolto “Walk” dei Pantera. Meglio di così non possono chiudere, con venti canzoni eseguite in maniera impeccabile, un'ora e mezza di alta professionalità ma, forse, anche di eccessivo distacco con un pubblico ad ogni modo caloroso. Sarà una fisima chic? O un vero e proprio approccio “spirituale” alla performance? Non lo so, fatto sta che la mia vescica è leggera come un fiocco di neve e pronta per la traversata di ritorno.

mercoledì 29 settembre 2010

JOANNA NEWSOM : Live @ Teatro dal Verme, Milano, 27 settembre 2010


Quando arrivo all'ingresso del Teatro dal Verme le condizioni climatiche si sono già sistemate da un bel pezzo ma è evidente che ormai l'estate a Milano sta per diventare un ricordo. La temperatura, fresca quel che basta per non tramutarsi in gelo, è quella ideale per un concerto come quello di Joanna Newsom, ormai con merito divenuta eroina del panorama folk internazionale. Per qualche attimo, sempre davanti l'ingresso del teatro, temo però di finire personalmente annotato nel libriccino nero dei più punkabbestia della serata nonostante indossi un sobrio maglioncino e dei gentilissimi pantaloni quasi skinny verdastri: inevitabile che si raduni a questi eventi un certo intellettualismo estetico fatto di occhialoni che nessuno si filava più da vent'anni, giacchette lise e acconciature da fighetti efebici. Ma è da sottolineare come, grazie ad una visione panottica della platea una volta preso posto in sala, mi colpisca piacevolmente la presenza di molte persone abbastanza avanti con l'età, dettaglio a me del tutto inatteso. Vorrà pur dire qualcosa, questo. Ma, chiusa l'inutile parentesi sui miei complessi d'inferiorità riguardo la mia scarsa competitività nei trend della moda, alle 21 in punto rompe il ghiaccio un supporter di cui non possiedo notizie biografiche, tanto meno mi attendo che dovesse aprire il concerto di Joanna Newsom. Alasdair Roberts da Glasgow si presenta sul palco con la sola chitarra acustica in mano – non nudo però, ha dei bei pantaloni rossi indosso e pure una camicia, e il tutto mette in evidenza la sua alta statura coniugata ad uno scarso volume muscolare – e per mezz'ora abbondante propina le sue rivisitazioni di traditionals irlandesi e scozzesi inclusi nel suo album “Too Long In This Condition” (il titolo del disco è stato una delle fortuite notizie carpite durante i suoi brevi interventi tra le canzoni, constatato il suo stretto accento scozzese). Niente per cui spendere molte parole, eccetto la sua bravura nel fingerpicking e nell'uso di particolari accordature – tant'è che gli intervalli tra brano e brano erano puntellati dalle corde che si arcuavano e impennavano a seconda delle sue necessità tonali -, sei brani monocordi cantati sì con convinzione ma nulla più. Bello il secondo brano di cui sconosco il titolo, dopodiché il volenteroso Alasdair inizia a farsi un po' pesante allo stesso modo in cui si farà pesante la pizza che mangerò più tardi al momento di abbozzare questo articolo e che mi farà sudare in piena notte come un chicco di riso lesso. Alasdair non mi fa sudare ma, in compenso, non mi fa vedere l'ora che concluda la predica e sloggi. Alasdair finisce e ringrazia, se ne va e il cambio palco dura dei bei venti minuti, ed è proprio qui che noto la presenza di tante teste canute, come vi ho già detto. L'arpa di Joanna Newsom è imponente in mezzo al palco e il tecnico – che però è una donna, e nel dubbio mi esonero dall'ardito utilizzo della parola “tecnica”, chiedo scusa – impiega un bel po' ad accordare ogni corda. Puntuale tanto da spaccare un capello in quattro, le luci sfumano con dolcezza e alle 22 Joanna e la sua band di supporto entrano in scena e da questo punto in poi mi dimentico solennemente tutto quello che è avvenuto durante tutta la pesante giornata affrontata. Lei ha l'innocenza di un'adolescente non ancora matura nonostante abbia ventotto anni, va sul palco col passo accelerato ma assolutamente aggraziato delle studentesse in ritardo dopo il suono della campanella. Comincia ad accarezzare le corde per il primo brano ma si ferma. Sorride, I've got new strings, dice (ecco compreso il motivo di un così lungo check all'arpa durante il cambio palco). Sorride nuovamente e sistema la disarmonia. Mi sorprende la sua timidezza in perfetto equilibrio con l'agilità nell'affrontare il pubblico. È timida, e si vede, ma assolutamente a suo agio. Ha un fascino incredibile. Ma, chiusa l'inutile parentesi sull'ascendente che la meravigliosa Joanna esercita su un fallito imbrattacarte come il sottoscritto, tutto comincia dopo la falsa partenza. Il viaggio comincia da lontano, ad aprire è la breve Bridges And Balloon, che è anche opener del suo primo album, “The Milk-Eyed Mender” del 2004 e funge da intro al resto della scaletta. Arrivano subito le presentazioni del gruppo che la supporta e poi si riprende con la title-track del grandioso ultimo lavoro “Have One On Me” ed il suo fiabesco sovrapporsi di cori sul finale. Tutti lì dentro ci emozioniamo e parte il primo di una serie di lunghi applausi che mettono ancor più in evidenza la garbata riservatezza della giovane musicista californiana. Che però tira fuori dal cilindro la coppia di canzoni da me più attesa, Easy e la commovente Cosmia, che mi mette davvero la pelle d'oca. Se già su disco la pregiata fattura delle composizioni è evidente, dal vivo questa è riproposta al cubo. La Newsom è sostenuta da una band eccellente (un chitarrista che maneggia anche ukulele e mandolino con estrema bravura, un batterista, un trombettista, due violiniste), strumentisti preparati e sensibili alle sottolineature dei momenti topici senza essere invadenti, con un estro formidabile nelle dinamiche e ottimi anche nelle operazioni di sostegno, sia ritmico (bellissimi i battiti di mani in controtempo), sia vocale (certi cori venano di gospel e blues ben più di un frangente). Quando i tocchi sull'arpa s'infittiscono mi sento sfiorato da morbidi flussi acquatici ma non mi è neanche raro perdermi in fantastici labirinti di un surreale giardino. Le architetture delle canzoni mi lasciano davvero basito per come vengano eseguite e scorgo una certa propensione alla rivisitazione di un certo approccio prog: non mi sento affatto criminale se tiro in ballo i Gentle Giant negli improvvisi cambi di tempo e struttura di alcuni pezzi. Dopo In California, uno dei sei estratti dall'ultimo disco, Joanna si ferma per un “really quick tuning check” che poi così “really quick” non è, tanto che il chitarrista, dal cognome di chiare origini italiane, interviene per sollevare la Newsom dal disagio rivelando a tutti noi di avere antenati di Lucca. Quant'è piccolo il mondo, anche se non siamo a Lucca bensì a Milano. Insomma, finisce anche quest'altro simpatico siparietto e nel frattempo Joanna è passata al pianoforte per intonare Inflammatory Writ, altra gittata d'occhio sull'esordio. La Newsom interpreta ogni brano con una precisione vocale da brivido, alterna con estrema disinvoltura timbrica e falsetti e mi domando come possa essere tanto precisa nel canto mentre tesse quelle scintillanti trame soniche sull'arpa. Gli applausi continuano ad essere lunghi, caldi e fragorosi e sfilano così anche Autumn e Good Intentions, prima di Monkey And Bear che chiude il set quando io e tutti i presenti ne vorremmo ancora per tutta la notte. Due ammiratori donano alla bella Joanna due mazzi di fiori giusto per dimostrare di essere tipi originali e lei ringrazia facendo spallucce e sorridendo e guadagna il backstage. Come da copione, un concerto così non può finire senza un extra. Passa neanche un minuto di ovazioni e richieste di bis e la Newsom e compagnia sono di nuovo ognuno al posto che avevano da poco lasciato. Se erroneamente penso che oltre il picco di pathos raggiunto con “Cosmia” non potrei andare per stasera è solo perché non ho ancora fatto i conti con Baby Birch: la versione in studio, ve l'assicuro, per quanto raffinata ed elegante possa essere, è, vi assicuro di nuovo, un nulla in confronto a ciò che viene eseguito sul palco: leggera e confidenziale si apre e cresce lenta ed inarrestabile fino alla coda intarsiata di celtiche fantasie, che è qui ben più lunga di quella che si trova su disco, e si eleva con un climax da paura che si libra su, si alza e si alza e il tetto del teatro si schiude come un guscio e fluttuo lontano da qui, in un posto che non potrei definire perché le parole hanno un limite di fronte a certe emozioni. Vorrei piangere ma ho la barba e la faccia seria da uomo brutto sporco e cattivo, quindi mi astengo. Stavolta finisce davvero, dopo un'ora e quaranta che non dimenticherò perché voglio ricordarla per quello che è stata: una vera e propria esperienza artistica. Niente è rimasto in balia del caso, ogni suono calibrato alla perfezione, ogni singolo passaggio pennellato con classe, niente fuori posto. Joanna Newsom si conferma strepitosa strumentista e impressionante cantante, padrona del palco e affabile col pubblico. Ok, sì, è pure così affascinante che vorrei inoltrarle una seria proposta matrimoniale. Lo so, sognare è molto bello.


Bridges And Balloons / Have One On Me / Easy / Cosmia / Soft As Chalk / In California / Inflammatory Writ / Autumn / Good Intentions / Monkey And Bear / Baby Birch

venerdì 30 aprile 2010

SLEEPYTIME GORILLA MUSEUM : Grand Opening And Closing



Pensi alla California e si configurano spiagge assolate affollate da bikini riempiti fin quasi a scoppiare da ben di dio assortito, pensi a megamuscolosoni a forma di bagnino sulle torrette,pensi a palme e strade larghissime rigogliose di traffico e vita. Lì dove splende il sole però, esistono zone oscure, buchi neri che paiono assorbire ogni apparente felicità, masticarla e risputarla all'esterno sotto forma di sogno rivoltato. Gli Sleepytime Gorilla Museum incarnano alla perfezione questi banchi di nera nebbia sotterranea. Influenzati da un cupo surrealismo, il nome della band viene direttamente dal mondo dadaista: il 22 giugno 1916 ebbe luogo l'inaugurazione di un fantomatico museo da opera di un nugolo di dadaista riunitisi sotto il monicker di "Sleepytime Gorilla Press". L'esibizione di quel giorno fu un incendio che portò alla chiusura del loco. Non esistono però fonti certe a riguardo, il tutto potrebbe anche essere una semplice invenzione dei membri della band, e visti gli ambienti artistici dai quali sono influenzati la cosa non ci stupirebbe affatto. Leggenda o fatto reale, il titolo del primo album, Grand Opening And Closing, viene proprio da questo happening. Oggi, a far parte della combriccola c'è gente che non è affatto di primo pelo: il chitarrista/cantante Nils Frikdahl inquietava l'underground americano già a metà anni Novanta coi suoi perfidi Idiot Flesh in compagnia del bassista Dan Rathbun (che è, tra l'altro, inventore e costruttore di molti strumenti impiegati dalla band durante le proprie performance); la violinista Carla Kihlstedt, oltre ad essere impegnata in un interessante progetto solista, è membro di Charming Hostess e Tin Hat Trio (e solo in occasione del successivo album degli SGM si aggiungerà alla line-up il batterista degli Skeleton Key Matthias Bossi). Il museo degli incubi schiude lento i battenti e ci risucchia immediatamente in una caduta verso gli inferi dell'anima umana. L'inno all'insonnia di Sleep Is Wrong è un efferato requiem dove la voce di Frikdahl si staglia per latrare come una belva assassina mentre martellamenti industrial alla Swans si alternano a cabarettistici momenti di decompressione. I timorosi non possono più abbandonare lo spettacolo, manette di ferro inossidabile ne bloccano i polsi ed è vietato non guardare. L'alternanza di furiose apertura post-metalliche con apparenti calme che nascondono inquietanti riverberi notturni è la spina dorsale dello stile degli Sleepytime, che pagano un forte dazio ai maestri dell'avant-prog più surrealista, i Thinking Plague. Ambugaton si districa all'interno di sghembe geometrie, così come il velenoso hard-rock di 1997. Carla Kihlstedt ci sussurra l'inquietudine di una giovane donna come se stesse descrivendoci la scena ritratta in un'impolverata e decrepita fotografia che sembra rimasta impigliata in una gigantesca ragnatela che gode di vita autonoma (Ablutions). Le voci di Nils e Carla s'intrecciano in un visionario dialogo, come due tetri gemelli siamesi. Il ghigno malefico che espone denti aguzzi sotto occhi neri come l'abisso diviene materia tangibile nell'angoscia soffocante di Powerless: qualcosa striscia nei dintorni, lo percepiamo. Gli intenti "anti-umani" dichiarati dal gruppo pulsano da sotto il pavimento, lo rigonfiano e lo lacerano per fuoriuscire come rigurgiti di un'oscura creatura sotterranea. Ma prima che il tutto venga definitivamente a galla ci sono le carezze di una mano defunta nella ninna-nanna di Sleepytime e i rimbalzi fuori controllo di The Stain, sorta di King Crimson rielaborati dal Cappellaio Matto di Lewis Carroll. Il sipario cala sul carillon di Sunflower, sul quale ruota, vestito a festa, il cadavere dell'uomo contemporaneo. Come pochi altri là fuori gli Sleepytime Gorilla Museum sono in grado di evocare fobie che conducono alla pazzia. Le loro mani sono artigliate e pronte a sferrare attacchi letali alla coscienza. La rivolta contro l'ipocrisia della vita di tutti i giorni è qui servita in tutta il suo candido orrore. Abbandoni ogni speranza chi ha il coraggio di entrare nel museo dell'anti-umanità.

(Seeland, The End Records, 2001)

Sleep Is Wrong / Ambugaton / Ablutions / 1997 / The Miniature / Powerless / The Stain / Sleepytime / Sunflower

martedì 19 gennaio 2010

LIBRI : David Foster Wallace, Brevi Interviste Con Uomini Schifosi

David Foster Wallace ci ha lasciati troppo presto. Sconfitto dalla depressione, altra e forse orrendamente più vera faccia di una società che anela con voracità a quella felicità costruita in laboratorio dai pubblicitari. E di questa società di massa Wallace è sempre stato caustico osservatore e spietato critico, a volte con un estro umoristico esilarante, altre volte con fotogrammi toccanti e profondi. Uscito nel 1999, a tre anni da quell'enorme successo di pubblico e critica che fu “Infinite Jest”, malloppo di oltre 1200 pagine (di cui 100 di sole note scritte di tutto pugno direttamente dall'autore e parti integranti della storia), Brevi Interviste Con Uomini Schifosi è l'emblema del Wallace più sperimentale, lanciato a briglia sciolta nella manipolazione del racconto breve.
Spina dorsale del libro sono le interviste a strani individui tutti affetti da preoccupanti perversioni degli istinti sessuali. Nelle brevi interviste, nelle quali vengono riportate soltanto le risposte, le domande dell'intervistatrice sono un continuo omissis, chiedendo così uno sforzo comunicativo al ricettore, invitato a ricostruirle. Ma le domande, in sostanza, non contano. In apparenza astrusi e paradossali, questi frammenti di lingua parlata (a volte sembrano delle bobine trascritte) rivelano piano piano una normalità paralizzante. Tutto è assurdo ma nello stesso tempo realistico. Tutto è possibile. Il tono cinico e sferzante che a momenti sprofonda in un surrealismo grottesco è la risultante di un processo di certosina vivisezione della realtà, masticata e poi sputata in faccia al lettore in tutte le sue più inquietanti forme. Quelle di cui nessuno vorrebbe mai sentir parlare, salvo poi restare incollato alla tivvù, in nome di un voyeurismo che ha superato ormai ogni soglia di decenza, quando un caso del genere oltrepassa i limiti del privato e assurge all'altare della cronaca. Ci si imbatte così in una sequenza di piccoli mostri quotidiani: dal sostenitore del partito democratico americano, che all'acme dell'orgasmo urla slogan di incitamento verso la sua fazione politica, al focomelico Johnny Moncherino, che col suo braccio sottosviluppato adesca, impietosendole, un consistente numero di donne per poi portarle a letto. O l'uomo di servizio nelle latrine di lusso, impassibile come una statua di marmo, che distribuisce asciugamani puliti a ricchi che defecano ed emettono i flati e le puzze più infestanti solo in cambio di qualche spicciolo. O ancora il tizio che fa leva sui punti deboli e sui traumi d'amore di una ragazza per sedurla, farci del sesso e mollarla. O l'altro che vuole convincere la sua donna che quello che le fa di tanto male non vorrebbe farlo. Wallace scruta dal buco della serratura nella stanza degli orrori ma senza urlare allo scandalo. Sa bene che questa è la brutale normalità. Ma non è soltanto questo il materiale di "Brevi Interviste". Alcuni degli episodi inclusi sono tra i migliori suoi scritti. Il salto dal trampolino di una piscina comunale diventa metafora del lancio nel vuoto e delle scelte che si parano davanti ad un tredicenne che entra nella difficile fase della pubertà, con una scena descritta con un tono poetico ma mai ampolloso che si muove lenta, come una moviola emotiva ricca di dettagli (Per Sempre Lassù). C'è il bellissimo Sul Letto di Morte..., ultima dichiarazione, sul suo capezzale, di un padre che ha sempre odiato il figlio, eterno rivale nella vita. C'è il geniale Ottetto, in cui i meccanismi della metafinzione vengono rivelati con gli schemi di costruzione di un microracconto o costruendone alcuni (i cui paragrafi vengono chiamati Quiz a Sorpresa) in cui i protagonisti sono la coppia X e Y, due amici alla deriva. L'onirico Chiesa Fatta Senza Le Mani che sfuma i contorni della realtà catapultandoci in una dimensione tortuosa dai piani che sfalsano. O il lapidario Una Storia Ridotta All'Osso della Vita Postindustriale, istantanea di un incontro tra un uomo ed una donna racchiuso in otto righe e mezzo che, rielaborando il minimalismo del primo Raymond Carver, ci lancia davanti gli occhi ad una velocità paurosa tutta l'assenza di sentimento che impera in gran parte dei rapporti sociali. Spigoloso ed al limite del sopportabile è La Persona Depressa, racconto che ruota intorno ad una giovane depressa che assilla ogni persona che la circonda raccontandole le sue sfighe ed i suoi sbalzi d'umore, talmente egoista e disinteressata ai sentimenti altrui che induce la sua psicanalista a suicidarsi. Se la storia, nel suo complesso, si rivela addirittura geniale, lo stile e la struttura che la informano rende la lettura abbastanza difficoltosa: ridondanze a mai finire, lunghissime note che sono racconti nel racconto (avvalendosi così di una tecnica cara a Borges, ad esempio, quella della “moltiplicazione interna del racconto”) che, se da un punto di vista tecnico-stilistico sono una vera leccornia, dall'altro, per chi non è interessato ai dettagli tecnici ma è solo in cerca di "una storia", rendono il tutto estremamente cervellotico, quasi spossante. Di sicuro un'anticipazione di quello che sarà il materiale che verrà incluso 5 anni più tardi in “Oblio”, raccolta di romanzi brevi in cui lo stile di Wallace diventa un vero e proprio labirinto in cui il rischio di perdersi è costantemente dietro l'angolo.
Wallace crea marionette incarnanti perversioni e aberrazioni che altro non sono che proiezioni, in microscala, delle nevrosi di massa che innervano la società postindustriale tutta. La sua è una prosa geniale che mescola senza soluzione di continuità registri alti e forbiti (con una padronanza dei linguaggi settoriali a dir poco spaventosa) ad altri più bassi e colloquiali che lambiscono il volgare. Tutto costruito con una maestria davvero rara. “Brevi Interviste...” è un libro ostico, a tratti difficile da seguire, basta deconcentrarsi per poche parole e si rischia di perdere il bandolo della matassa. E così è per quasi tutta la produzione dello scomparso scrittore americano. Per chi non avesse ancora confidenza con lo stile del Nostro, il consiglio è quello di cominciare con “La Ragazza dai Capelli Strani” nell'elegante edizione di Minimum Fax, la sua prima raccolta di racconti uscita nel 1989, quando ancora quel nodo alla gola che gli ha fermato per sempre il respiro era abbastanza lontano ma, probabilmente, già annunciato.

mercoledì 13 gennaio 2010

GIOVANNI SOLLIMA : Works


Giovanni Sollima è un crogiolo sinestetico dove, qua e là, fioriscono eleganti intarsi, come un'architettura che si genera da sola con un moto interiore. Con ago e filo cuce elaborazioni di campi sensoriali diversi in un corpus che diviene multicolore riverbero spirituale. Sollima scava nell'anima umana e affonda le mani nei più disparati gerghi musicali per dare forma viva alle proprie visioni sonore. Nel viaggio di Works si accendono colori, si sussurrano versi, ci si lascia trasportare dalle melodie. Su un humus cameristico Giovanni Sollima amalgama una mistura plasmata dalla congiunzione dei più diversi tra i linguaggi musicali. Ed è sicuramente questo il dettaglio tecnico che più avvince nel flusso narrativo che s'espande dalle note. La sola Terra Aria, atto primo di una suite frazionata in quattro episodi, vale per intero il prezzo del biglietto: torsioni barocche disegnano lievi spirali sulle quali si distendono respiri di cristallo e l'aria perde ogni consistenza e diviene materia che appartiene solo al tempo, arrestando lo scorrere di questo proprio quando si raggiunge il picco del pathos. La declinazione di (apparentemente) distanti mondi musicali è evidente nei successivi movimenti: dagli accenni celtici che però hanno un approccio quasi post-rock di Terra Fuoco agli intrecci di delay che, nel finale, divengono martellanti al confine dell'esoterismo tribale di Terra Acqua. Sollima non s'intimorisce nell'imbastardire la tradizione classica (che trova in Zobeide un buon compendio tra Bach – forte la sua impronta anche in Trio - e Bartòk) con stili più contemporanei e “di massa”. Gli intenti colti emergono con la forza delle citazioni in spoken words della Divina Commedia di Dante (Hell IV) o nel ricordo di Lord Byron (Byron). Con Hell I il barometro emotivo segna vertiginose altitudini: si vaga in un deserto dove piccole voragini si aprono per lasciar fuoriuscire il vento che dà vita ad una tempesta che si avvita intorno al cuore, lo essicca e lo rigenera. È l'affresco della mestizia e della rinascita interiore, dove il violoncello, nei punti più stridenti sembra intonare un requiem solitario in una notte d'assenza che si conficca nelle ossa, un grido nella penombra che va affievolendosi in una placida agonia. Magnifica. Parecchio distante dall'autoreferenzialità di molti suoi colleghi neo-contemporanei, più dediti al puro astrattismo privo di funzione comunicativa, Giovanni Sollima, palermitano d'esportazione internazionale, migra in sentieri scavati da incandescenti colate di umori e riconfigura una poetica dalla fragile bellezza e dall'evocativa forza interiore. Qualcosa non da poco.

(Sony BMG, 2005)

Terra Aria / Terra Acqua / Terra Danza / Terra Fuoco / Zobeide / Byron / Hell I / Hell IV (Ugolino) / La Spera Ottava / Inversion Recovery / Trio / Notte