sabato 9 giugno 2007

HIGH TIDE

Sea Shanties

In un panorama musicale che poco concede alle sorprese ed ancor meno alle reali innovazioni, andare al ripescaggio di certe gemme dimenticate dai più pare essere una pratica confortante per chi si nutre di musica fuori dalle logiche del "consumo". Per anni gli High Tide sono rimasti sotto la polvere, ricordati solo "da chi c'era" e da uno sparuto manipolo di cultori e tuttologhi dell'hard-progressive britannico, quello esoterico e malvagio che band come Black Widow e Necromandus hanno contribuito a creare. Tra i prime-movers del prog nel vero senso della parola, il primo parto della formazione capitanata dal violinista Simon House e dal chitarrista Tony Hill (sono della partita anche Roger Hadden alla batteria e Peter Pavli al basso) è Sea Shanties, opera coeva ad un certo "In The Court Of The Crimson King" dei King Crimson, vero decalogo del rock progressivo. Di recente la Eclectic Discs, label inglese che dedica parte delle proprie operazioni alla ristampa di materiale anni '70, ha sottratto gli High Tide ad un immeritato dimenticatoio che per lungo tempo li ha resi prigionieri. I sea shanties erano dei canti tradizionali intonati dai marinai mentre scagliavano le proprie lance durante le battute di pesca. Il titolo fuso al nome della band può farci intendere come l'oceano e l'abisso e i moti evolutivi delle maree facciano sostanzialmente parte dello stile e delle immagini evocate dalle composizioni. Il sound della combriccola inglese, i cui albori risalgono al 1969, anno in cui "Sea Shanties" venne pubblicato, è acido e ruvido, reso ancor più particolare nello spettro cromatico dal violino di House, invero una seconda chitarra al servizio degli arrangiamenti. I punti di contatto coi King Crimson non si esauriscono con le sole coincidenze temporali: se si hanno ben presenti gli arrangiamenti con violino di "Larks' Tongues in Aspic" e "Starless And Bible Black" è facile individuare in Pushed, But Not Forgotten una (probabile) fonte di ispirazione. Anche i Blue Cheer si prestano come ottimo termine di paragone per quel riffing graffiante e cupo, sabbathiano ante litteram. Un ingorgo malato di blues, hard-rock ed escoriazioni psicheliche che si congiungono in lunghe digressioni improvvisative rigogliose di assoli e cambi di ritmica che spezzano la struttura tipica delle songs. E' un'aria densa quella circola da queste parti, e non di rado vengono evocati tempestosi scenari marini come nel delirante volo pindarico di Death Warmed Up, autentico capolavoro strumentale in cui l'estro di House ed Hill dipinge abissali correnti e schiumose emersioni che squarciano il liquido suolo. Le melodie sono proferite con spirito declamatorio (Futilist's Lament). L'approccio è pressoché devastante se lo si rapporta ai tempi (basti ascoltare la finale Nowhere per farsi schiacciare da certi passaggi che saranno poi appartenenti al corredo genetico dell'heavy-metal), e l'immaginario opprimente e sinistro hanno fatto di "Sea Shanties" una gemma delle tenebre di un periodo musicale tra i più vivaci ed innovativi della storia del rock a metà tra Grateful Dead, Atomic Rooster, Blue Cheer e King Crimson. O per meglio dire, in pieno stile High Tide.

(Liberty, 1969 - Eclectic Discs 2006)
Futilist's Lament / Death Warmed Up / Pushed But Not Forgotten / Walking Down Their Outlook / Missing Out / Nowhere

High Tide


Il discorso si complica in parte l'anno successivo con la pubblicazione del secondo (ed ultimo, almeno per quasi vent'anni) album cui viene conferito il nome della band stessa. High Tide dimostra una maggiore padronanza tecnica e compositiva, ne giova così una coesione ben più spiccata che concorre alla creazione di un impatto più impermeabile e meglio rilegato tra le maglie. I testi sono sempre improntati su tematiche oscure ispirate dalla letteratura romantica anglosassone (Coleridge fu un grande punto di riferimento), così come avvenne per le liriche del debutto. Blankman Cries Again è ossessiva nel suo continuo reiterare le melodia portante, col violino di House a dare un taglio quasi celtico e le parole trovano spazio solo nei primi passi del brano. The Joke è un tour de force tra lunghi assolo di chitarra che si distendono su grappoli di note in cui si trova respiro solo nell'acustico finale. Saneonymous, nei suoi quasi quindici minuti, addensa la pesantezza del riffing bluesato dei primissimi Black Sabbath in un lirismo vocale, paradossalmente il migliore che la band sia stata capace di proporre. "High Tide" è inverosimilmente un album sì più complesso, ma nello stesso tempo anche più snello: le composizioni si snodano principalmente su due / tre strutture portanti cariche di orpelli improvvisativi che donano dinamicità al discorso.

(Liberty, 1970 - Eclectic Discs, 2006)
Blankman Cries Again / The Joke / Saneonymous

Gli High Tide si scioglierano di lì a poco, sconfortati da una scarsa considerazione sia della critica che del pubblico e per circa venti anni il loro nome venne ostracizzato. La band è stata rimessa su da Hill verso la fine degli anni Ottanta con risultati alquanto discutibili e di scarsa rilevanza. Inutile dire che la fiamma nera che ardeva agli esordi è oramai irrimedibilmente spenta. Restano comunque in eredità due album di eccezionale bellezza e dall'arcano fascino, che a dispetto delle solite cronache della storia del rock, hanno dato non poco al progressive e all'hard-rock, con quei suoni aggressivi e malefici, caratteristiche che lentamente il metal ha assorbito e fatte proprie. E' giusto quindi togliere la polvere dai cassetti della memoria e celebrare i giusti meriti di questo piccolo ma importantissimo nome.

Nessun commento: