giovedì 21 luglio 2011

martedì 19 luglio 2011

Questo blog fa ciao ciao con la manina

Questo blog chiude ufficialmente. O meglio, non sarà più aggiornato. Fine. Ma, morto un blog, se ne fa un altro. A breve i miei soliloqui migreranno altrove, con una formula diversa, un po' più rapida, ma tutto incentrato sulla musica, come di consueto.

A presto per aggiornamenti.

domenica 26 giugno 2011

RICK TOMLINSON : Night Time Recordings In Goteborg


Nasce a Bolton, ma è Manchester la sua casa artistica. Rick Tomlinson si accomoda in un angolo e gioca con le ombre, le respira e le trasforma in malinconica purificazione.

Tomlinson appartiene al ramo genealogico di Jack Rose, a cui deve il calore del fingerpicking, e di Sir Richard Bishop, a cui lo accomuna la fascinazione per gli arabeschi. In Night Time Recordings From Goteborg la chitarra acustica intona melodie solitarie avvolte in una fine patina meditativa.

Rustiche sfumature affiorano in diversi punti, soprattutto nella coppia finale Warm Winds – Smaltung, ma credo che con Daylight Over Calvi Tomlison superi sé stesso toccando il vertice assoluto di purezza poetica. Non esagero a dire che ascoltarla mi commuove e l'incanto che risuona tra le sue note ha la capacità di estraniarmi dallo spazio che mi circonda. Il volto sonoro si delinea su un arpeggio costruito su una scala di lacrime di cristallo tanto fragili che per ascenderla i passi devono tramutarsi in respiri. L'atmosfera dolente, quasi disperata mi ha ricordato l'inafferrabile verbo del Leopardi del “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”: la luna muta osserva il vagabondare di queste melodie che si distendono sulla flebile e tortuosa linea della vita, ne indagano il significato senza afferrarlo.

“Night Time Recordings In Goteborg” è uscito in sole 465 copie numerate a mano per l'ultramiscroscopica etichetta svedese Kning Disk.

Da avere senza alcun indugio anche gli altri due progetti in cui è coinvolto Tomlinson.
L'omonimo full-length dei Voice Of The Seven Woods (anche diversi Ep all'attivo) insieme al batterista Chris Walmsley e al bassista Pete Hedley è attiguo alle atmosfere del Tomlinson solista, ma con uno spettro ben più ampio: risuonano echi di Led Zeppelin, Davy Graham, Robbie Basho, Pentangle, kraut rock e persino Nick Drake nell'unico brano cantato, Silver Morning Branches.

Più irruento e abrasivo invece il progetto-fratello, Voice Of The Seven Thunders (anche qui un omonimo lavoro su lunga distanza), una sorta di rilettura raga degli Amon Duul II che strizza l'occhio a Jimi Hendrix. L'impatto è in apparenza più fisico, ma sotto scorre la filigrana che lo lega alle altre esperienze sonore di Tomlinson. Il nome scelto viene dall'Apocalisse di Giovanni.

Purtroppo su YouTube non ci sono tracce tratte da Night Time Recordings In Goteborg, ma in compenso, se volete farvi un favore, potete ascoltarlo per intero qui.

(2009, Kning Disk)

venerdì 17 giugno 2011

VEX RED : Start With A Strong And Persistent Desire

 
Li scoprii su Psycho!, rivista che, quando ero un imberbe moccioso alla magica scoperta delle chitarre pesanti, mi diede parecchie dritte. Si parlava di nu-metal per i Vex Red, ma secondo me è riduttivo e fuori luogo. 

Sì, c'è del crossover, ma è più una patina che il centro da cui tutto si sviluppa. Usciti per la I Am, l'etichetta di Ross Robinson, i Vex Red uscirono a loro volta di scena in breve tempo. Lasciarono solo queste undici canzoni intrise d'autunno a cui, però, non disdegnano le chitarre graffianti. 

Più vicini alla malinconia dei Radiohead che al disagio perverso dei (primi) Korn; distanti anni luce dalla violenza cieca e gratuita degli Slipknot o dall'hip-hop sfacciata dei Limp Bizkit, invero i Vex Red erano una creatura trasversale. 

Impregnata di emo-rock, la voce di Terry Abbott ripercorre anche i sentieri degli Alice In Chains, ma rifugge sia dagli intrecci corali di Staley e Cantrell, sia dal pattume post-grunge in voga nel 2002, anno di pubblicazione di Start With A Strong And Persistent Desire.

La forza di queste canzoni sta tutta nelle linee vocali, lineari e fruibili senza ricorrere ai luoghi comuni di una tristezza costruita a tavolino. Basta prendere The Closest e Can't Smile per mettere in chiaro le cose.
Sono forse i Deftones il gruppo cui più i Vex Red puntano lo sguardo in Clone Jesus e Dermo, ma non per questo li si può cacciare nella pentola del nu-metal (persino per la band di Chino Moreno è un'etichetta limitativa e alquanto arbitraria).

Passati in sordina dalle nostre parti, si inabissarono poco dopo nel silenzio. I litigi intestini stettero alla base dello sgretolamento del progetto. Il batterista Ben Calvert comparve nei Twin Zero di Karl Middleton a metà anni Zero, Terry Abbott fondò i Septembre di cui non so proprio nulla. Degli altri, a parte del bassista Keith Lambert che ha collaborato per breve tempo con Martin Grech, si sono perse le tracce sui palchi. Fine dei Vex Red.

(2002, I Am)

giovedì 7 aprile 2011

SHUDDER TO THINK : Pony Express Record


Erano i tempi in cui le major si fiondavano su qualsiasi entità dell'underground. “Nevermind” dei Nirvana aveva sdoganato definitivamente l'alternative-rock, oltre ad aver portato capitali nelle casse della Geffen, e nella corsa all'oro le grandi label avevano sguinzagliato i cani da tartufo alla ricerca di ipotetici tesori nascosti nel sottobosco. Non era raro che si scovassero patacche.

Gli Shudder To Think non erano affatto delle truffe, anzi. Messi sotto contratto addirittura dalla Sony dopo aver già pubblicato ben quattro dischi - di cui tre per la Dischord di Ian McKaye dei Fugazi - nel 1994 tirano fuori dal cilindro Pony Express Record.

Piallati i bozzi di uno stile che nel precedente “Get Your Goat” era ancora grezzo, a venir fuori è un autentico gioiello pop-core dalle molteplici sfumature.
Il cantante Craig Wedren è un funambolo che zigzaga a destra e manca con le sue melodie che non tengono alcun conto delle heavy-rotation su MTV. Le sue linee vocali sanno essere ruffiane ma senza scadere nel paraculismo (Gang Of $, Kissi Penny), ammiccano al grunge dei Soundgarden nei passaggi più power-rock (X-French Tee Shirt, So Into You), rielaborano i paradigmi faithnomoreiani di Mike Patton (Hit Liquor, Sweet Year Child). Il suo stile mi ricorda l'imprevedibilità dell'avant-prog più ostico, vedi i maestri Thinking Plague.

Il manto strumentale è spesso in contrasto con i giri vocali di Wedren, senza per questo essere entità separate. Le chitarre sono acide e iper-dissonanti, quello degli Shudder To Think è un rock che rivisita il concetto stesso di riff all'interno di canzoni sbilenche e aspre.

Fatto di hardcore made in Washington D.C. e pop, il sound della band è permeabile ad altri linguaggi musicali. Questa elasticità permette di dare vita alla ballata jazz di Room 9, Kentucky e al meta-blues di Own Me. E il quadro complessivo si mantiene assolutamente coerente.

Fa una strana sensazione pensare che un disco del genere sia uscito addirittura per la Sony. Questa è roba per orecchie abituate alle dissonanze, alle fratturazioni melodiche, ai suoni abrasivi e agli incroci stilistici più arditi. 

(1994, Sony Epic)


lunedì 28 marzo 2011

FAUN FABLES : Light Of A Vaster Dark


I Faun Fables mi conducono per mano in luoghi surreali, in scenari da fiaba nei boschi. Ma non sono storie a lieto fine dove tutti vivranno poi felici e contenti e sorridenti e metteranno su famiglia sfornando un branco di marmocchi che affollerà la contea come un'invasione di locuste. L'imprevisto è dietro l'angolo e spesso sento incombere una catastrofe che si rivelerà permanente, un danno irreparabile perpetrato da chissà quale oscura forza con una velenosa ed inarrestabile cattiveria. Sento occhi strisciare qui e là, nel buio, tra le fessure della vegetazione. Spiano, osservano e piccole lingue biforcute tramano piani diabolici.

Va bene, forse lascio che l'immaginazione viaggi un po' troppo slegata, ma è davvero quel che le loro canzoni mi suggeriscono, indipendentemente dai temi affrontati. L'inquietudine che traspira dalle atmosfere non si palesa con estrema evidenza, ma sorge pian piano tra le intercapedini, ribolle e sgorga per dipanarsi silenziosa e quando la scorgo è ormai una marea che sta per annegarmi.

Ok, sto esagerando.

Questo nuovo lavoro uscito nell'ottobre scorso, qui in Italia, non se l'è filato praticamente nessuno, a parte un paio di accorte webzine che non hanno esitato a elogiarne il potenziale. Si vede che tutti gli altri stavano tutti a sbrodolarsi su qualcos'altro. Me compreso, sia chiaro, che sono venuto a conoscenza dell'uscita di questo ultimo disco per puro caso qualche settimana fa.

Quarto lavoro per la coppia Dawn McCarthy – Nils Frykdahl (militante nei recentemente – e aggiungerei, tristemente – sciolti Sleepytime Gorilla Museum) e, senza ombra di dubbio, il punto più alto toccato in una carriera che si protrae da ben quattordici anni.

Light Of A Vaster Dark è in parte ispirato dagli scritti di Willa Cather e Laura Ingalls Wilder e batte la strada percorsa dal gruppo nelle precedenti pubblicazioni con un folk che richiama a chiare lettere la tradizione prog-folk britannica degli anni Sessanta, con Pentangle e Fairport Convention in veste di indubbi numi tutelari.

L'album ha una struttura particolare in cui degli Interludi fungono da spina dorsale e concorrono a dipingere quegli stranianti scenari fiabeschi cui accennavo all'inizio e di cui smetterò di parlare da qui alla fine di questo post. Promessa da chierichetto.

Qui dentro ci sono canzoni meravigliose nel loro stare in bilico tra tradizione dei settlers e ricerca melodica mai scontata: Housekeeper – che ha un eccellente solo di violino dall'afflato celtico -, Violet - che ricorda i bellissimi Espers -, la disperata title-track – che sa di foglie spazzate via da gelide brezze rigurgitate da un pozzo d'angoscia -, Hear The Grinder Creek – coi cori dissonanti che distorcono la scena per pochi istanti, come un fotogramma deforme che appare all'improvviso in una pellicola -, O Mary – il cui candore è prossimo a tramutarsi in infermo pallore -, Parade – che strizza l'occhio ai Jefferson Airplane - sono tutte figlie di una classe cristallina.

Il rituale di Sweeping Spell sa parecchio di Dead Can Dance, periodo-Spiritchaser.

Do atto ai Faun Fables di essere una band dall'estremo talento capace di non rendere mai banale un genere molto datato e di non cadere nella trappola del presunto plagio. Il loro peculiare tocco sulle composizioni è distinguibile tra le influenze e con questo album hanno raggiunto sul serio il perfetto punto di equilibrio tra solidità della scrittura, signorilità negli arrangiamenti, potenza evocativa.

Mi duole essere arrivato così tardi.

(2010, Drag City)


mercoledì 23 marzo 2011

JOHNNY CASH : At Folsom Prison


Questo è un cazzo di live. Sudato, intenso. Vissuto.

Quanti dischi dal vivo vengono pubblicati nel contemporaneo e iperaffollato mercato discografico con la stessa intensità, la stessa veracità, la stessa forza evocativa? Quelli d'oggi sono manufatti, “istantanee” - come piace tanto alle band chiamarli - false dalla testa ai piedi che non vengono mai lanciate in pasto ai fans, già pronti con gli euro stropicciati in mano, senza prima passare dalla sala operatoria per un bel lifting o una mastoplastica additiva che le renda impeccabilmente bugiarde. Live al botulino, pura plastica fondente 100%, meglio se arricchita da qualche ovazione degna dell'applausometro de La Corrida o di un'opprimente sit-com a caso. D'altronde, che ci si attende da una società che si specchia ammiccante nella sua terrificante bellezza in vitro?

Penso a Johnny Cash e sento la voce di uno che ne ha passate di cotte e di crude, ma che ha saputo conservare un'umanità ed una sensibilità profondissime, che sono poi affiorate in tutta la loro spoglia magnificenza nei lavori degli ultimi anni, su tutti la serie "American" registrata da Rick Rubin.

Poco importa se nella setlist alla Folsom Prison manchino alcuni cavalli di battaglia: Cocaine Blues, Folsom Prison Blues, 25 Minutes To Go, Orange Blossom Special valgono l'intero prezzo del biglietto, e non ho menzionato la toccante The Long Black Veil. Ma è uno show perfetto da cima a fondo tra ballate pastorali e accessi country da manuale. Musica che oltrepassa la pelle, s'intrufola nelle vene e si mescola col sangue diventando parte di te, frammento dell'enorme colonna sonora della tua vita.

Canzoni che sono storie di crimine, di esistenze trascorse dietro le sbarre tra passati difficili e presenti ancora più foschi. Ma Cash dà voce alla speranza dei reietti di questo mondo lercio ed ipocrita. 

Tossisce, sorride, interagisce col pubblico, Johnny. Sono le imperfezioni a rendere questo live l'immortale testimonianza di un evento che rivive nella sua riproduzione tecnica – ciao Benjamin.

La testimonianza di qualcosa dall'inestimabile valore. Di autentico. Di assolutamente umano.

(1968, Columbia)

domenica 20 marzo 2011

LONG DISTANCE CALLING : Long Distance Calling

 
Parlare in termini entusiastici di una band o un disco ad ogni post ridurrebbe questo blog ad una monotona bacheca di esaltazioni e, detto fra me e me – perché qui io parlo solo con me stesso – la faccenda comincerebbe a recarmi più sbadigli e sonnolenza che altro. Ogni tanto esporre il proprio rammarico per aver sprecato tempo e banda per un disco è un buon toccasana per ripristinare gli equilibri interiori.

I teteshki Long Distance Calling non si facevano vivi da due anni, ovvero da quando con “Avoid The Light” speravo di aver trovato i degni eredi dei Pelican, i quali dopo “Australasia” e “The Fire In Our Throats bla bla bla... “ si sono esposti al pubblico ludibrio con lavoretti che tacciare d'essere Orrendi è voler tenere la lingua educatamente a freno.

Questo eponimo terzo album del quintetto teteshko stenderebbe un orso tanto è inzuppato di luoghi comuni e di latitanza di pathos, quindi prevedibile e tedioso. Quello proposto è il solito copione che francamente conosco a memoria di lunghi brani post-rock tanto ligi ai dettami del genere e compiti che pure quando potrebbero spostarmi la scriminatura dei capelli dall'altra parte della testa con qualche bella sculacciata metallica pare che stiano accarezzando un cucciolo di foca appena nato col timore di fargli qualche graffietto.

Tutto ciò è insopportabile, lasciatemelo dire. Neanche la comparsa di John Bush, ex cantante degli Anthrax e uno che ti fa vibrare le guance come un phon gigante puntato in faccia con la sua vociona possente riesce a risollevare le sorti di questo dischetto: Middleville è una lunga power ballad che pare uscita dai Nickelback (con un po' più di gusto estetico, va detto).

Mi sa tanto che i Long Distance Calling siano degli eterni incompiuti. Ascoltandoli ho rivissuto quei patetici momenti nei ricevimenti scolastici quando la professoressa di turno, col suo sorriso maligno e ricco di soddisfazione informava mia madre – che poi si voltava verso me con un sorriso denso di rassegnazione – di avere un figlio «dalle grandi potenzialità ma che può fare molto di più». Ho pensato proprio a questo.

(2011, Superball Music)

sabato 19 marzo 2011

BELL ORCHESTRE : As Seen Through Windows


Andando a caccia di informazioni su una band mi sono imbattuto in questi Bell Orchestre. Rimasti in disparte per qualche mese, in questi giorni sto dedicando loro del tempo.

Il gruppo, che consta di sei componenti di base a Montreal, Canada, coinvolge anche due membri fissi degli Arcade Fire (Richard Reed Parry e Sarah Neufeld).

È musica sperimentale, di quella che soddisfa i miei appetiti. Sono parecchio astratti e cerebrali senza però scadere in monologhi autistici, hanno una spiccata componente colta senza per questo risultare affetti da irritante saccenteria. Impiegano spesso archi che li avvicinano ad ambienti da camera prossimi alla Penguin Café Orchestra, influenza troppo palese per non venire citata (su tutte l'iniziale Stripes), oltre a strumenti a fiato – tromba, trombone, corno e oboe - che conferiscono sontuose sfumature jazzy (soprattutto nell'emozionante title-track) e orchestrali.

L'umore generale del disco è tra il cupo e il trasognato con la testa ficcata dentro una crepa del muro per osservarne la realtà trasfigurata al di là.

Sanno riprodurre scenari d'oscura poetica ma anche eco provenienti da profondi moti marini (Elephants e c'è Julia Kent dietro l'angolo), poi si lasciano andare in improvvisi accessi gipsy, come dei Gogol Bordello ma più malinconici (The Gaze).

Disseminati qua e là ci sono riferimenti ai Clogs, ai Jaga Jazzist, al minimalismo di Philip Glass e ai The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e in Icicles/Bicycles si lasciano tentare dalla jungle. Il violino di Air Lines/Land Lines sembra venir fuori dalle sonate di Bach.

Tirano fuori pure una bellissima cover di Bucephalus Bouncing Ball di Aphex Twin, facendone emergere il lato melodico nascosto in quel groviglio d'elettronica d'autore.

Hanno pubblicato due dischi, As Seen Through Windows è il secondo – il primo è “Recording A Tape The Colour Of The Light” del 2005, fuori per Rough Trade.

Band davvero interessante da cui attendo un sequel degno, se non di più, di questo album.

(2009, Arts & Crafts)


SOUNDGARDEN : Live On I-5


 L'ho ascoltato oggi pomeriggio sulla loro pagina Facebook, in due rate perché tutto d'un fiato non ce l'ho fatta. È una collezione di canzoni live registrate durante il tour di supporto a "Down On The Upside" del 1996, l'ultimo lavoro in studio in ordine cronologico, fino ad oggi. Fino ad oggi perché i Soundgarden, dopo la fallimentare esperienza solista di Cornell - ridottosi tragicamente a vestire i panni di un aspirante Justin Timberlake quarantenne - hanno deciso di riunirsi, dapprima per alcune date live, negando fortemente la possibilità di scrivere del materiale inedito, salvo poi smentirsi appena qualche settimana fa. Insomma, da fan cresciuto a pane e grunge, con Soundgarden e Alice In Chains come portate predilette, mi preparo al peggio. Ok, Kim Thayil è sopravvissuto con alcune collaborazioni, alcune anche decenti; Matt Cameron s'è dato ai quattro quarti facili facili degli ultimi, discutibili Pearl Jam; Ben Shepherd non pervenuto (ma si vocifera sia stato on buona compagnia con un bel po' di bottiglie).

Che dire di questo live? Bella la tracklist con molti estratti da "Badmotorfinger", il disco che più apprezzo della loro carriera. Buona l'esecuzione strumentale ma niente di eccezionale. Vergognosa la performance di Cornell, spesso fuori nota, incapace di elevarsi vocalmente come in studio (ma questo è un fatto risaputo che è spesso emerso negli ultimi anni di attività della band ed acuito nelle recenti avventure di Cristoforo, vedi i dispensabili e ruffiani Audioslave).

Ah, una Rusty Cage così veloce non l'avrebbero suonata neanche i Sex Pistols - però il tiro ce l'ha. Da censura Jesus Christ Pose: non si può sfigurare un pezzo coi controcazzi come quello in quel modo.

C'è pure una cover di Helter Skelter dei Beatles e di Search And Destroy degli Stooges, per la cronaca. Solo per la cronaca.

Basta, lo mollo, non vorrei che la cena mi restasse qui - sto battendo la mano destra lì dove esofago e stomaco si incontrano amichevolmente.

Di buono c'è una copertina più in linea con la consueta iconografia del gruppo, elemento che era venuto a mancare col recente greatest hits "Telephantasm", in cui Josh Graham - curatore dell'artwork - ha dato il peggio di sé. 

(2011, Universal)


venerdì 18 marzo 2011

VIC CHESNUTT : Ghetto Bells


L'ho tenuto sepolto sotto la polvere per, quanto saranno stati, due anni? Forse tre. Lo avrò ascoltato sì e no un paio di volte, poi distratto da mille altre cose, me ne sono dimenticato. Probabilmente non mi aveva colpito più di tanto.

Piccola pausa di silenzio, poi fischietto guardandomi intorno.

Ok, faccio un sincero e completo mea culpa: non lo avevo capito. Non ero entrato in connessione col mood di questo che, insieme al precedente “Silver Lake”, è l'album più elaborato e quasi quasi il più affascinante del Vic Chesnutt degli ultimi anni.
L'ho (ri)scoperto un paio di settimane fa e ora non manca quasi mai di comparire tra i miei ascolti quotidiani.
Sono quindi due settimane che mi ritrovo con queste note che traspirano dalle casse e mi si posano sulla pelle come delicata brina. Ascoltare il compianto Vic intonare un canto d'amore come Virginia mi stringe il cuore in una morsa. Got To Me, Gnats, What Do You Mean? (in un teatrale scambio di incomprensioni tra Vic, cucciolo su di un trampolino, e un coro di voci femminili, quasi fossero l'incarnazione di una società incapace di accoglierlo e capirlo) sono sinceramente delle gemme di estrema eleganza. Ma è Forthright il gioiello di spoglia magnificenza: mi accompagna dolcemente verso un lago di confortevoli ricordi notturni e, centimetro dopo centimetro, m'immergo e trattengo il fiato e l'acqua mi accarezza e scorre intorno inesorabile, come i pensieri. Fuori parte un temporale che scheggia lo specchio d'acqua, ma in questo liquido tepore ciò non importa. Nulla ha più alcuna importanza.

(New West Records, 2005)


LIBRI : John Cheever , Il Nuotatore


Ritengo che la scelta della Fandango di mutilare “The Stories Of John Cheever”, la raccolta che fruttò al suo autore il Premio Pulitzer nel 1979, sia alquanto discutibile. Le opere fondamentali di uno scrittore, specialmente uno tanto importante (ma poco conosciuto dalle nostre parti) come John Cheever, andrebbero pubblicate nella loro interezza mettendo da parte certe arroganze imposte dal marketing.
In questo libriccino che ha lo spessore di un pamphlet (sono 56 pagine al “modico” prezzo di 5 euro), Fandango pubblica soltanto 3 estratti da quella raccolta, tra cui lo scritto più rappresentativo della poetica cheeveriana, ovvero il bellissimo e toccante “Il nuotatore” (che fu tradotto in opera cinematografica nel 1968 con Burt Lancaster). 
Lo stile di Cheever è pacato ed elegiaco e la sua prosa è avvolta da una semplicità linguistica che non ne ripudia la ricerca. Quelle di Cheever sono storie dell'America borghese di fine anni Cinquanta, quella benpensante che, sotto la maschera sorridente della quotidianità da mostrare ai vicini, occulta inquietudini e malesseri.
Il viaggio di Ned Merrill, il protagonista de “Il nuotatore” che attraversa l'intera contea nuotando da una piscina all'altra, è una serie di incontri che racchiudono ricordi, volti amici e cordiali radunati in feste, ma anche dolorose scie di un passato non del tutto chiuso. È uno sguardo spietato - ma architettato con estrema maestria - nella vita confortevole e apparentemente felice di Ned Merrill, in cui ogni cosa è gradualmente messa in discussione, persino il suo presente (che è invero sorprendente nella malinconica scena finale).
Ho trovato parecchio interessante anche “Una radio straordinaria”, leggendo il quale non ho potuto non ripensare ad uno dei "Sessanta Racconti" di Dino Buzzati, ovvero “Sciopero dei telefoni”. Anche qui ogni certezza pian piano scricchiola e le fobie prendono il sopravvento mentre Irene Westcott origlia le vicissitudini dei vicini grazie alla radio guasta regalatale dal marito. E temendo che la Felicità che negli anni si è illusa di costruire nel focolare domestico e di cui si avvolge ogni giorno come una calda placenta protettiva, Irene scopre gli spaventosi fori che pian piano si allargano, e si allargano e si allargano. Senza lasciarle scampo.

L'ombelico era scomparso, e Neddy si domandò che sensazione avrebbe provato una mano nel toccare i propri attributi nel letto, alle tre del mattino, e nel sentire una pancia senza ombelico, senza legami con la nascita, un'interruzione nella successione della specie?

domenica 13 febbraio 2011

TWEAK BIRD : Tweak Bird


Caleb e Ashton Bird sono fratelli. Caleb e Ashton Bird vengono da Carbondale, cittadina di trentamila abitanti nel sud dell'Illinois. Caleb e Ashton Bird suonano insieme. Caleb e Ashton Bird sono i Tweak Bird. Caleb imbraccia la sua possente chitarra baritona e si avvale del suo bel microfono, Ashton sta alla batteria e ha anche lui ha il suo da fare col microfono. Nel 2007 si affacciano con lo schizofrenico Ep di quattro brani “Bigbone Snakebite”. L'anno successivo preparano i bagagli e approdano nella più consona Los Angeles e arriva così “Reservations”, mini-cd di sette nuove composizioni prodotto da Toshi Kasai (Altamont, recentemente divenuto un terzo dei Big Business) e il signor Dale Crover (che, per chi non lo sapesse, è il batterista dei Melvins), soci nell'etichetta Deaf Nephews (che però non pubblica l'album, ci pensa Volcom). I fratelli Bird attirano un po' di attenzioni coi loro shows, compaiono in alcune trasmissioni televisive, racimolano un bel gruzzolo di ottime recensioni qua e là creando così notevoli aspettative sul futuro prossimo. È il 2010, ovvero l'anno scorso, e Caleb e Ashton Bird completano il filotto col loro primo parto su lunga (?) distanza: Tweak Bird. Sì, disco omonimo. Dieci tracce. Ventisette minuti. Sì, 27 minuti. Vi starete chiedendo cosa potranno mai suonare i due consagnuinei per racchiudere in un così esiguo lasso di tempo dieci canzoni, di cui l'ultima di sei minuti passati. Ecco: provate ad emulsionare mentalmente la ruvidezza dello stoner, un approccio smaccatamente indie-rock, fresche melodie pop, un certo impeto post-punk, un pizzico di southern rock e un pizzico di blues, umori psichedelici e del prog-rock zippato. Se doveste piombare in equilibrio sulla punta dei piedi sull'orlo di una profonda emicrania, per favore, non guardatevi intorno alla disperata ricerca di spigoli che pongano definitivo rimedio alla faccenda, non è mica colpa vostra. Potete risolvere il problema senza fare sciocchezze e mettendo su i Tweak Bird, avrete così una visione chiara (??) del composto (o del groviglio). I due fratelli Bird si danno da fare senza alcuna forzatura, senza calcoli preliminari, senza pavoneggiarsi della loro inafferrabilità. I loro timbri vocali sono quasi femminei, atipici per un sound abituato a grasse barbe alcoliche. "Tweak Bird" è un mix trascinante ed irresistibile che paga il suo inevitabile bel tributo ai Kyuss nei frangenti più desertici, ma potremmo scovare tra le maglie gli attacchi psicotici dei primissimi Blood Brothers, se non gli sferragliamenti dei mai dimenticati Jesus Lizard. Il singolo Lights In Lines (di cui Roud Trippin' è la lisergica protesi) ha tutti i crismi dell'anthem stoner, e Tunneling Through e Sky Ride (che strizza l'occhio ai Black Rebel Motorcycle Club), con le loro ruspanti andature, non se ne stanno lì mica a cazzeggiare. Siamo anche certi che i Dead Meadows gradirebbero la sciamanica Flyin' High, mentre acidi vapori in technicolor si elevano serpeggiando da cumuli di carboni ardenti col sassofono di A Sun / Ahh Ahh. Insomma, se arrivando a Distant Airways si dovesse illuminare nella vostra capoccia il mega-schermo con su scritto King Crimson rilassatevi, non state affatto dando di matto. È proprio tutto vero.

(Volcom, 2010)

The Future / Lights In Lines / Roud Trippin' / A Sun/Ahh Ahh / Beyond / Tunneling Through / Sky Ride / Hazement In The Basement / Flyin' High / Distant Airways

sabato 5 febbraio 2011

[OCCHIO | SCISSO]

In questo blog propongo alcuni scritti autonomi ed estratti dalla raccolta di racconti alla quale sto attualmente lavorando. Buona lettura.