L'ho tenuto sepolto sotto la polvere per, quanto saranno stati, due anni? Forse tre. Lo avrò ascoltato sì e no un paio di volte, poi distratto da mille altre cose, me ne sono dimenticato. Probabilmente non mi aveva colpito più di tanto.
Piccola pausa di silenzio, poi fischietto guardandomi intorno.
Ok, faccio un sincero e completo mea culpa: non lo avevo capito. Non ero entrato in connessione col mood di questo che, insieme al precedente “Silver Lake”, è l'album più elaborato e quasi quasi il più affascinante del Vic Chesnutt degli ultimi anni.
L'ho (ri)scoperto un paio di settimane fa e ora non manca quasi mai di comparire tra i miei ascolti quotidiani.
Sono quindi due settimane che mi ritrovo con queste note che traspirano dalle casse e mi si posano sulla pelle come delicata brina. Ascoltare il compianto Vic intonare un canto d'amore come Virginia mi stringe il cuore in una morsa. Got To Me, Gnats, What Do You Mean? (in un teatrale scambio di incomprensioni tra Vic, cucciolo su di un trampolino, e un coro di voci femminili, quasi fossero l'incarnazione di una società incapace di accoglierlo e capirlo) sono sinceramente delle gemme di estrema eleganza. Ma è Forthright il gioiello di spoglia magnificenza: mi accompagna dolcemente verso un lago di confortevoli ricordi notturni e, centimetro dopo centimetro, m'immergo e trattengo il fiato e l'acqua mi accarezza e scorre intorno inesorabile, come i pensieri. Fuori parte un temporale che scheggia lo specchio d'acqua, ma in questo liquido tepore ciò non importa. Nulla ha più alcuna importanza.
(New West Records, 2005)
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