domenica 22 febbraio 2009

New Faces #2

I Robinson fanno un casino della madonna. Se soffrite di emicranie o mal d'orecchi lasciate stare, questa non è affatto roba per voi. Il singer sbraita quasi volesse estirparsi una tonsilla. Tutti gli altri pestano come dei fabbri generando dieci bozzetti di follia urbana radicati nel caos incontrollabile del grind-core. Le loro "canzoni" sono un continuo fluire di battute ed elettroni e le prime sei incluse in scaletta non raggiungono nemmeno un minuto di durata. Insomma, i nostri non cincischiano mica con pretese filo-intellettuali e vanno dritti al punto. Le strutture cominciano un tantino a complicarsi a partire da 7 (i titoli sono in logica sequenza numerale da 1 a 10), dove le chitarre iniziano a sfilacciarsi, fatto poi rimarcato allo spasimo dall'asfissiante finale 10, che da sola dura tanto quanto tutte le altre messe assieme. The Great City (Debello, 2006) sono venti minuti di isteria allo stato brado con cui dover fare i conti. Gente del giro Debello, chi è a conoscenza delle scorribande messe in atto dalla label in questione sa sicuramente a cosa va incontro.

I Kongh vengono dalla Svezia, sono in tre e fanno sul serio. La loro miscela di metallo fondato prevalentemente sulla lentezza narcolettica del doom e che si avvale del supremo pattume sludge e di un impatto tipico del post-hardcore li rende possenti come degli elefanti imbizzarriti. Counting Heartbeats (Trust No One, 2007) è il loro esordio del 2007 su Trust No One Records ed in cinque solchi tocca la bellezza di 65 minuti. Facile intuire che siamo al cospetto quindi di composizioni molto articolate e lunghe, dove convergono tratti cari a Rwake, Mastodon, Melvins, echi di Breach (il giro principale della prima Pushed Beyond). A spessi muri di suono si affiancano non di rado sinistri arpeggi mentre la voce è un ferino latrato che si staglia con attitudine declamatoria. Quel che colpisce è la compattezza che i Kongh riescono a raggiungere in una moltitudine di strutture che si susseguono per creare un amalgama parecchio personale. Il gioiello del disco è Zithuatanejo, posta perfettamente in equilibrio tra sbilenchi giri post-rock, aperture death-core, esplosioni in poderosi mid-tempos in un viaggio deumanizzante ma nel contempo eccezionale.

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