giovedì 21 luglio 2011

martedì 19 luglio 2011

Questo blog fa ciao ciao con la manina

Questo blog chiude ufficialmente. O meglio, non sarà più aggiornato. Fine. Ma, morto un blog, se ne fa un altro. A breve i miei soliloqui migreranno altrove, con una formula diversa, un po' più rapida, ma tutto incentrato sulla musica, come di consueto.

A presto per aggiornamenti.

domenica 26 giugno 2011

RICK TOMLINSON : Night Time Recordings In Goteborg


Nasce a Bolton, ma è Manchester la sua casa artistica. Rick Tomlinson si accomoda in un angolo e gioca con le ombre, le respira e le trasforma in malinconica purificazione.

Tomlinson appartiene al ramo genealogico di Jack Rose, a cui deve il calore del fingerpicking, e di Sir Richard Bishop, a cui lo accomuna la fascinazione per gli arabeschi. In Night Time Recordings From Goteborg la chitarra acustica intona melodie solitarie avvolte in una fine patina meditativa.

Rustiche sfumature affiorano in diversi punti, soprattutto nella coppia finale Warm Winds – Smaltung, ma credo che con Daylight Over Calvi Tomlison superi sé stesso toccando il vertice assoluto di purezza poetica. Non esagero a dire che ascoltarla mi commuove e l'incanto che risuona tra le sue note ha la capacità di estraniarmi dallo spazio che mi circonda. Il volto sonoro si delinea su un arpeggio costruito su una scala di lacrime di cristallo tanto fragili che per ascenderla i passi devono tramutarsi in respiri. L'atmosfera dolente, quasi disperata mi ha ricordato l'inafferrabile verbo del Leopardi del “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”: la luna muta osserva il vagabondare di queste melodie che si distendono sulla flebile e tortuosa linea della vita, ne indagano il significato senza afferrarlo.

“Night Time Recordings In Goteborg” è uscito in sole 465 copie numerate a mano per l'ultramiscroscopica etichetta svedese Kning Disk.

Da avere senza alcun indugio anche gli altri due progetti in cui è coinvolto Tomlinson.
L'omonimo full-length dei Voice Of The Seven Woods (anche diversi Ep all'attivo) insieme al batterista Chris Walmsley e al bassista Pete Hedley è attiguo alle atmosfere del Tomlinson solista, ma con uno spettro ben più ampio: risuonano echi di Led Zeppelin, Davy Graham, Robbie Basho, Pentangle, kraut rock e persino Nick Drake nell'unico brano cantato, Silver Morning Branches.

Più irruento e abrasivo invece il progetto-fratello, Voice Of The Seven Thunders (anche qui un omonimo lavoro su lunga distanza), una sorta di rilettura raga degli Amon Duul II che strizza l'occhio a Jimi Hendrix. L'impatto è in apparenza più fisico, ma sotto scorre la filigrana che lo lega alle altre esperienze sonore di Tomlinson. Il nome scelto viene dall'Apocalisse di Giovanni.

Purtroppo su YouTube non ci sono tracce tratte da Night Time Recordings In Goteborg, ma in compenso, se volete farvi un favore, potete ascoltarlo per intero qui.

(2009, Kning Disk)

venerdì 17 giugno 2011

VEX RED : Start With A Strong And Persistent Desire

 
Li scoprii su Psycho!, rivista che, quando ero un imberbe moccioso alla magica scoperta delle chitarre pesanti, mi diede parecchie dritte. Si parlava di nu-metal per i Vex Red, ma secondo me è riduttivo e fuori luogo. 

Sì, c'è del crossover, ma è più una patina che il centro da cui tutto si sviluppa. Usciti per la I Am, l'etichetta di Ross Robinson, i Vex Red uscirono a loro volta di scena in breve tempo. Lasciarono solo queste undici canzoni intrise d'autunno a cui, però, non disdegnano le chitarre graffianti. 

Più vicini alla malinconia dei Radiohead che al disagio perverso dei (primi) Korn; distanti anni luce dalla violenza cieca e gratuita degli Slipknot o dall'hip-hop sfacciata dei Limp Bizkit, invero i Vex Red erano una creatura trasversale. 

Impregnata di emo-rock, la voce di Terry Abbott ripercorre anche i sentieri degli Alice In Chains, ma rifugge sia dagli intrecci corali di Staley e Cantrell, sia dal pattume post-grunge in voga nel 2002, anno di pubblicazione di Start With A Strong And Persistent Desire.

La forza di queste canzoni sta tutta nelle linee vocali, lineari e fruibili senza ricorrere ai luoghi comuni di una tristezza costruita a tavolino. Basta prendere The Closest e Can't Smile per mettere in chiaro le cose.
Sono forse i Deftones il gruppo cui più i Vex Red puntano lo sguardo in Clone Jesus e Dermo, ma non per questo li si può cacciare nella pentola del nu-metal (persino per la band di Chino Moreno è un'etichetta limitativa e alquanto arbitraria).

Passati in sordina dalle nostre parti, si inabissarono poco dopo nel silenzio. I litigi intestini stettero alla base dello sgretolamento del progetto. Il batterista Ben Calvert comparve nei Twin Zero di Karl Middleton a metà anni Zero, Terry Abbott fondò i Septembre di cui non so proprio nulla. Degli altri, a parte del bassista Keith Lambert che ha collaborato per breve tempo con Martin Grech, si sono perse le tracce sui palchi. Fine dei Vex Red.

(2002, I Am)

giovedì 7 aprile 2011

SHUDDER TO THINK : Pony Express Record


Erano i tempi in cui le major si fiondavano su qualsiasi entità dell'underground. “Nevermind” dei Nirvana aveva sdoganato definitivamente l'alternative-rock, oltre ad aver portato capitali nelle casse della Geffen, e nella corsa all'oro le grandi label avevano sguinzagliato i cani da tartufo alla ricerca di ipotetici tesori nascosti nel sottobosco. Non era raro che si scovassero patacche.

Gli Shudder To Think non erano affatto delle truffe, anzi. Messi sotto contratto addirittura dalla Sony dopo aver già pubblicato ben quattro dischi - di cui tre per la Dischord di Ian McKaye dei Fugazi - nel 1994 tirano fuori dal cilindro Pony Express Record.

Piallati i bozzi di uno stile che nel precedente “Get Your Goat” era ancora grezzo, a venir fuori è un autentico gioiello pop-core dalle molteplici sfumature.
Il cantante Craig Wedren è un funambolo che zigzaga a destra e manca con le sue melodie che non tengono alcun conto delle heavy-rotation su MTV. Le sue linee vocali sanno essere ruffiane ma senza scadere nel paraculismo (Gang Of $, Kissi Penny), ammiccano al grunge dei Soundgarden nei passaggi più power-rock (X-French Tee Shirt, So Into You), rielaborano i paradigmi faithnomoreiani di Mike Patton (Hit Liquor, Sweet Year Child). Il suo stile mi ricorda l'imprevedibilità dell'avant-prog più ostico, vedi i maestri Thinking Plague.

Il manto strumentale è spesso in contrasto con i giri vocali di Wedren, senza per questo essere entità separate. Le chitarre sono acide e iper-dissonanti, quello degli Shudder To Think è un rock che rivisita il concetto stesso di riff all'interno di canzoni sbilenche e aspre.

Fatto di hardcore made in Washington D.C. e pop, il sound della band è permeabile ad altri linguaggi musicali. Questa elasticità permette di dare vita alla ballata jazz di Room 9, Kentucky e al meta-blues di Own Me. E il quadro complessivo si mantiene assolutamente coerente.

Fa una strana sensazione pensare che un disco del genere sia uscito addirittura per la Sony. Questa è roba per orecchie abituate alle dissonanze, alle fratturazioni melodiche, ai suoni abrasivi e agli incroci stilistici più arditi. 

(1994, Sony Epic)


lunedì 28 marzo 2011

FAUN FABLES : Light Of A Vaster Dark


I Faun Fables mi conducono per mano in luoghi surreali, in scenari da fiaba nei boschi. Ma non sono storie a lieto fine dove tutti vivranno poi felici e contenti e sorridenti e metteranno su famiglia sfornando un branco di marmocchi che affollerà la contea come un'invasione di locuste. L'imprevisto è dietro l'angolo e spesso sento incombere una catastrofe che si rivelerà permanente, un danno irreparabile perpetrato da chissà quale oscura forza con una velenosa ed inarrestabile cattiveria. Sento occhi strisciare qui e là, nel buio, tra le fessure della vegetazione. Spiano, osservano e piccole lingue biforcute tramano piani diabolici.

Va bene, forse lascio che l'immaginazione viaggi un po' troppo slegata, ma è davvero quel che le loro canzoni mi suggeriscono, indipendentemente dai temi affrontati. L'inquietudine che traspira dalle atmosfere non si palesa con estrema evidenza, ma sorge pian piano tra le intercapedini, ribolle e sgorga per dipanarsi silenziosa e quando la scorgo è ormai una marea che sta per annegarmi.

Ok, sto esagerando.

Questo nuovo lavoro uscito nell'ottobre scorso, qui in Italia, non se l'è filato praticamente nessuno, a parte un paio di accorte webzine che non hanno esitato a elogiarne il potenziale. Si vede che tutti gli altri stavano tutti a sbrodolarsi su qualcos'altro. Me compreso, sia chiaro, che sono venuto a conoscenza dell'uscita di questo ultimo disco per puro caso qualche settimana fa.

Quarto lavoro per la coppia Dawn McCarthy – Nils Frykdahl (militante nei recentemente – e aggiungerei, tristemente – sciolti Sleepytime Gorilla Museum) e, senza ombra di dubbio, il punto più alto toccato in una carriera che si protrae da ben quattordici anni.

Light Of A Vaster Dark è in parte ispirato dagli scritti di Willa Cather e Laura Ingalls Wilder e batte la strada percorsa dal gruppo nelle precedenti pubblicazioni con un folk che richiama a chiare lettere la tradizione prog-folk britannica degli anni Sessanta, con Pentangle e Fairport Convention in veste di indubbi numi tutelari.

L'album ha una struttura particolare in cui degli Interludi fungono da spina dorsale e concorrono a dipingere quegli stranianti scenari fiabeschi cui accennavo all'inizio e di cui smetterò di parlare da qui alla fine di questo post. Promessa da chierichetto.

Qui dentro ci sono canzoni meravigliose nel loro stare in bilico tra tradizione dei settlers e ricerca melodica mai scontata: Housekeeper – che ha un eccellente solo di violino dall'afflato celtico -, Violet - che ricorda i bellissimi Espers -, la disperata title-track – che sa di foglie spazzate via da gelide brezze rigurgitate da un pozzo d'angoscia -, Hear The Grinder Creek – coi cori dissonanti che distorcono la scena per pochi istanti, come un fotogramma deforme che appare all'improvviso in una pellicola -, O Mary – il cui candore è prossimo a tramutarsi in infermo pallore -, Parade – che strizza l'occhio ai Jefferson Airplane - sono tutte figlie di una classe cristallina.

Il rituale di Sweeping Spell sa parecchio di Dead Can Dance, periodo-Spiritchaser.

Do atto ai Faun Fables di essere una band dall'estremo talento capace di non rendere mai banale un genere molto datato e di non cadere nella trappola del presunto plagio. Il loro peculiare tocco sulle composizioni è distinguibile tra le influenze e con questo album hanno raggiunto sul serio il perfetto punto di equilibrio tra solidità della scrittura, signorilità negli arrangiamenti, potenza evocativa.

Mi duole essere arrivato così tardi.

(2010, Drag City)


mercoledì 23 marzo 2011

JOHNNY CASH : At Folsom Prison


Questo è un cazzo di live. Sudato, intenso. Vissuto.

Quanti dischi dal vivo vengono pubblicati nel contemporaneo e iperaffollato mercato discografico con la stessa intensità, la stessa veracità, la stessa forza evocativa? Quelli d'oggi sono manufatti, “istantanee” - come piace tanto alle band chiamarli - false dalla testa ai piedi che non vengono mai lanciate in pasto ai fans, già pronti con gli euro stropicciati in mano, senza prima passare dalla sala operatoria per un bel lifting o una mastoplastica additiva che le renda impeccabilmente bugiarde. Live al botulino, pura plastica fondente 100%, meglio se arricchita da qualche ovazione degna dell'applausometro de La Corrida o di un'opprimente sit-com a caso. D'altronde, che ci si attende da una società che si specchia ammiccante nella sua terrificante bellezza in vitro?

Penso a Johnny Cash e sento la voce di uno che ne ha passate di cotte e di crude, ma che ha saputo conservare un'umanità ed una sensibilità profondissime, che sono poi affiorate in tutta la loro spoglia magnificenza nei lavori degli ultimi anni, su tutti la serie "American" registrata da Rick Rubin.

Poco importa se nella setlist alla Folsom Prison manchino alcuni cavalli di battaglia: Cocaine Blues, Folsom Prison Blues, 25 Minutes To Go, Orange Blossom Special valgono l'intero prezzo del biglietto, e non ho menzionato la toccante The Long Black Veil. Ma è uno show perfetto da cima a fondo tra ballate pastorali e accessi country da manuale. Musica che oltrepassa la pelle, s'intrufola nelle vene e si mescola col sangue diventando parte di te, frammento dell'enorme colonna sonora della tua vita.

Canzoni che sono storie di crimine, di esistenze trascorse dietro le sbarre tra passati difficili e presenti ancora più foschi. Ma Cash dà voce alla speranza dei reietti di questo mondo lercio ed ipocrita. 

Tossisce, sorride, interagisce col pubblico, Johnny. Sono le imperfezioni a rendere questo live l'immortale testimonianza di un evento che rivive nella sua riproduzione tecnica – ciao Benjamin.

La testimonianza di qualcosa dall'inestimabile valore. Di autentico. Di assolutamente umano.

(1968, Columbia)