lunedì 20 ottobre 2008

ISIS : Panopticon


Il Panopticon è un tipo di inserimento dei corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali di potere, di definizione dei suoi strumenti e dei suoi modi di intervento, che si possono mettere in opera in ospedali, fabbriche, scuole, prigioni. Così Michel Foucault, nel suo saggio "Sorvegliare e Punire" del 1975, dava una definizione di cosa fosse realmente il Panopticon in termini teorici, al di fuori del suo progetto originale. Uno strumento per controllare ed ordinare la società attraverso un duplice processo di segregazione/osservazione. Una sorta di Grande Fratello orwelliano ante litteram se vogliamo. Osservare senza essere visti, esercitare potere senza che questo sia manifesta forza fisica, ma solo insinuato in un'implicazione psicologica fatta di pressione nei confronti di chi lo subisce. Struttura penitenziaria concepita nel 1785 dall'inglese Jeremy Bentham, il Panopticon doveva essere un rivoluzionario sistema di incarcerazione, di rieducazione, di riequilibrio della società. Mantenere i detenuti separati ed isolati per evitare il contatto sociale, osservare il loro comportamento senza che questi possano vedere chi li spia, ma coscienti di essere potenzialmente sempre oggetti di informazione, mai soggetti di comunicazione. Un sistema di luce filtrante permette alla guardia che si trova nella torre centrale di tenere sempre sott'occhio le sagome dei detenuti rinchiusi nelle celle singole disposte ad anello intorno alla torre. Nessuna via di scampo da questo claustrofobico e deumanizzante contesto, molto simile all'assetto sociale in cui adesso viviamo. Tenuti in scacco dalla pressione psicologica esercitata dai media, altoparlanti della propaganda del “potere democratico”, siamo costantemente controllati a vista, sia da mezzi tecnologici (cellulari, fotocamere, videocamere), sia da un punto di vista mentale, col costante lavaggio del cervello che l'ottica consumistica perpetra giornalmente, generando modi di pensare e di agire preconfezionai e tutti uguali, quindi facilmente prevedibili ed “osservabili”, con l'illusione di renderci la vita ed il consumo personalizzato. Ognuno però rimane confinato nelle sue paure e nelle sue frustrazioni, soli come in celle dai muri spessi ed impenetrabili. Da questo punto parte l'idea che muove Panopticon, probabilmente il disco più rappresentativo degli Isis. Di certo uno dei più influenti degli ultimi anni nell'universo post-metal. Due anni più tardi l'ottimo “Oceanic”, disco che aveva condotto la band verso l'altare della consacrazione, quest'ultima giunge definitivamente col compendio di post-hardcore, post-rock, psichedelia, progressive ed alternative-metal delle sette canzoni qui incluse. Un perfetto album di “crossover” (se col termine intendiamo l'originale significato di “fusione di stili”), in cui forme e gerghi del rock si compenetrano e si fondono, raggiungendo equilibri senza macchia, per creare un amalgama rinnovato nelle distensioni compositive. Aaron Turner e soci, partiti dalla sulfurea claustrofobia degli esordi doom à la Neurosis, adesso si dirigono verso i chiaroscuri universi dei Tool e agghindano numerosi passaggi strumentali con giri cari ai Mogwai, senza dimenticare le ascendenze pinkfloydiane, adesso più profonde. Il corredo genetico dà quindi vita ad una serie di quadri di eccellente fattura, che trovano nell'iniziale So Did We la più alta forma di espressione, informata su continue ascese e voli in picchiata (nonostante l'attacco possente), con flussi strumentali che simulano correnti marine sotterranee e vortici di venti impetuosi: tutta la coda finale di oltre quattro minuti è semplicemente un piccolo manuale di climax e anti-climax musicale Il merito principale degli Isis è quello di non indulgere in perenni reiterazioni tematico-melodiche, avvalendosi di uno sviluppo prettamente progressive che li libera così dai vizi di forma tipici del post-rock. Ma per far lievitare i brani ci vuole pur sempre del tempo ed i lunghi ma nel contempo suggestivi prologhi di In Fiction, Grinning Mouths e Wills Dissolve (questa bellissima nei suoi intrecci di chitarra) la dicono lunga. Le digressioni di Backlit quasi ammiccano al kraut-rock degli Amon Duul, per poi re-incanalarsi tra grumose aperture post-metal. E’ invece ai limiti del trasognato il ciclico agitarsi della meravigliosa Syndic Calls, anche qui perfetto svolgersi di sali-scendi che, a volte, rischia di sconfinare in qualcosa a metà tra Godspeed You! Black Emperor e l'ambient. Quasi a sottolineare l'amore dei nostri verso l'arte sonora dei Tool viene invitato il bassista di questi, Justin Chancellor, per tratteggiare le linee di basso di Altered Colours, la quale vibra sotto le schiarite d'un pallido sole mattutino per poi inabissarsi in acquatiche distese surreali(ste). Le parti più dure contengono vigorose distorsioni di matrice noise-core, mentre Aaron Turner (di certo non un eccelso cantante) offre una prova vocale decisamente sopra le righe per tutta la durata del platter, delineando belle melodie che ben si coniugano con l'escapismo pindarico del tessuto strumentale. Anche le liriche, ispirate come detto dal progetto teorico del carcere panottico, riescono nel loro compito di creare un mondo ricco di necessità esistenziali, di ricerca umanista necessaria per gli uomini contemporanei, sempre più distratti ed indaffarati in “bel altro”. Fondamentale per l'incursione dell'universo post-core addentro le radure del post-rock (e a questo titolo si possono tranquillamente affiancare “Salvation” dei Cult Of Luna e non ultimo “The Eye Of Every Storm” dei Neurosis, pubblicati tutti nel 2004), “Panopticon” sfuma le linee di demarcazione che prima segregavano determinati modi d'intendere il rock alternativo e l'indie-metal e costituendo un corpus non soltanto musicale, ma anche “filosofico” che invita a riflettere sulla condizione umana dei nostri tempi, sempre più oppressa dal peso di un potere che ci osserva attimo dopo attimo.

(Ipecac, 2004)
So Did We / Backlit / In Fiction / Wills Dissolve / Syndic Calls / Altered Colours / Grinning Mouths

giovedì 28 agosto 2008

KONGH / OCEAN CHIEF : Split


Limitato a sole 500 copie, questo lavoro che vede coinvolte due delle migliori formazioni del panorama doom/sludge svedese è una leccornia per gli amanti del genere. I primi a far la loro comparsa sono gli ottimi Kongh, reduci lo scorso anno dall'altrettanto pregevole primo disco su lunga distanza intitolato "Counting Heartbeats". I ritmi rispetto al recente album sono dannatamente decelerati e la vena death metal lì apparsa è qui totalmente messa da parte. Anche la voce ora è più modulata e meno ferina ma non per questo orba della cattiveria necessaria. La loro Drifting On Waves è un'autentica odissea fatta di riff lenti e slabbrati, sdoppiature di chitarra ed andatura pachidermica, attraversando oltre venticinque minuti senza il minimo calo di tensione. I Kongh stanno da qualche parte tra Mastodon, Blutch ed i bravissimi americani Ocean: una band dalle grandi speranze da tenere sotto stretta osservazione, siete stati avvisati. È poi la volta dei magmatici Ocean Chief che con i due dischi fin qui pubblicati ("The Oden Sessions" del 2004 e "Tor" del 2006) si è imposta come una delle band cardine dell'effervescente scena scandinava. Il trio con Freja non tradisce il proprio trademark fatto di basso ultra-distorto e chitarra che lascia correre acide e corrosive fiamme lisergiche. Figli legittimi del verbo Sleep, i nostri sono molto più psichedelici dei loro colleghi e lo dimostrano sia con una voce lontana e drogata che con la bellissima divagazione psycho-spaziale che parte al diciassettesimo minuto per poi condurre ad un cambio di tempo che ammicca alle cadenze dei Black Sabbath. Il flusso, in entrambi i brani scorre alla perfezione, complici anche suoni ben calibrati ed un'atmosfera omogenea, nonostante le due band dimostrino di possedere forte personalità. Oltre cinquantuno minuti di musica di alto livello.

(Land O'\Smiles, 2008)
Drifting On Waves (Kongh) / Freja (Ocean Chief)

lunedì 26 maggio 2008

TESTAMENT : The Formation Of Damnation



Tutti quei gruppucoli che vengono attualmente spacciati come nuovi capisaldi dell'heavy metal futuro o presente fate vobis (i Trivium? Gli Shadows Fall?) dovrebbero evaporare all'istante al cospetto di una band come i Testament. Perché saremmo veramente curiosi di sapere se, tra vent'anni, i suddetti saranno capaci di sfornare dischi cazzuti e veraci come fa tutt'oggi la cricca guidata da un paurosamente inossidabile Chuck Billy. A venticinque anni dalla nascita (le origini sono legate al monicker Legacy per chi non ne fosse al corrente) i Testament sono ancora dei satanassi, eccezionali esegeti della materia thrash e, probabilmente - insieme ai cugini Exodus - gli ultimi veri baluardi del vecchio sound della Bay Area (non vorrete mica dire che l'ultimo Slayer possa reggere il confronto? Ovviamente soprassediamo sulle ultime [dis]avventure discografiche di Metallica e Megadeth). Il ritorno dei nostri ci segnala una line-up rinnovata rispetto all'ultimo albo in studio (quel "The Gathering" che è oramai un classico): al basso Greg Christian (stava nei Legacy nei primi anni '80), quella bestia feroce di Paul Bostaph alla batteria (nel suo curriculum i formidabili Forbidden, oltre a Slayer ed Exodus) ed il figliol prodigo Alex Skolnick alla chitarra; a questo sommiamo la vera e propria spina dorsale della band, ovvero Chuck Billy alla voce ed Eric Peterson alla chitarra. Ed i Testament ricominciano esattamente da dove li avevamo lasciati ben nove anni fa, da un thrash metal furibondo e che non risente minimamente del processo di erosione del tempo poichè coniuga mirabilmente la tradizione con le produzioni moderne senza mai sconfinare nel plastificato. Ci dovremmo attendere dei cinquantenni smidollati e rimbambiti e invece i cinque tirano fuori una prestazione da far invidia a tutti quei pischelli capaci solo di pose da finto bruti davanti alla macchina fotografica. L'attacco di More Than Meets The Eye mette subito in chiaro le cose: riff epico e che porta indelebile il trademark del gruppo che sfocia in una cavalcata spaccaossa. Per tutto l'album Chuck non risparmia una briciola dell'energia della propria ugola, che col tempo s'è fatta ancora più acida e fiammeggiante. Parliamo seriamente, chi tra le band della vecchia guardia potrebbe mettere sul piatto pezzi come Dangers Of The Faithless che è una mattonata in testa o la successiva The Persecuted Won't Forget, la quale mette seriamente a ferro e fuoco i nostri timpani non lasciando nessuno spiraglio di tregua. La title-track e The Evil Has Landed hanno le radici ben salde nelle scorribande tipicamente thrasheggianti; in Afterlife sbuca fuori persino un refrain anthemico e con cenni melodici più delineati. Gira invece un pò a vuoto F.E.A.R., il solco che più degli altri soffre un'ispirazione un pò sottotono: ma è un peccato veniale. La varietà ritmica all'interno di ogni brano permette la composizione di brani lunghi ed articolati che, anziché instillare noia conducono invece all'ascolto ripetuto per comprendere meglio i dettagli. E non è soltanto una questione di tecnica, è l'atmosfera cupa e drammatica, nonché quell'essenziale carica belluina che mai vengono messe da parte e che la fanno quindi da padroni. La produzione ben curata (affidata alle sapienti mani di Andy Sneap) supporta sicuramente la riuscita potente, ma non si può di certo negare che l'efferatezza sia proprio intrinseca ad un riffage serratissimo e che non avverte il minimo calo d'ispirazione, nonchè all'attitudine di tutta la band, che pesta come fossero dei nerboruti fabbri di vent'anni l'uno. "The Gathering" fu un disco pauroso e semplicemente ineguagliabile, ma qui, cari signori, siamo al cospetto di una band micidiale pronta ad innaffiarci tutti quanti con un bel lanciafiamme. The Formation Of Damnation è ciò che dai Testament ci si deve sempre attendere ed entra senza il minimo indugio di diritto tra i candidati più accreditati a titolo di disco metal dell'anno.

(Nuclear Blast, 2008)
For The Glory Of / More Than Meets The Eye / The Evil Has Landed / The Formation Of Damnation / Dangers Of The Faithless / The Persecuted Won't Forget / Henchman Ride / Killing Season / Afterlife / F.E.A.R. / Leave Me Forever.

giovedì 28 febbraio 2008

KARL SANDERS : Saurian Meditations



Potremmo tracciare, e senza nemmeno grossi problemi, due assi che congiungono perfettamente il Karl Sanders in forza ai Nile con quello solista. L'intersezione ci consentirebbe di vedere che l'Antico Egitto, il suo fascino e la passione del biondocrinito musicista americano è il perno di tutta la faccenda. In tempi recenti, ovvero con l'ultimo (ferocissimo) "Ithyphallic", i Nile hanno un pò accantonato quelle atmosfere cupe e tribali che, nel 2004, diventano materia prima per questo Saurian Meditations. Sanders accantona chitarre iperdistorte, tempi inumani e voci da oltretomba per proiettarci in un oltretomba differente, lontano cinque millenni, alle radici di quella che fu una tra le più affascinanti e misteriose tra le civiltà antiche. Molta della strumentazione impiegata è tipicamente araba (su tutte la baglama) e ciò aiuta Karl nei suoi intenti narrativi e descrittivi, creando un enorme abisso che lambisce spesso le fattezze della soundtrack. L'aura cinematografica di molti brani ivi inclusi è evidente e non solo per il fatto che "Saurian Meditations" si sviluppi in gran parte come lavoro avuto l'onore di fondersi emotivamente con le torbide ambientazioni degli SPK del capolavoro "Zahmia Lehmanni" può prepararsi per un nuovo itinerario che lo assorbirà, fin quasi a perdere contatto con l'inquinante realtà contemporanea. Non è affatto un crimine d'immaginazione provare ad accostare Contemplations Of The Endless Abyss o Temple Of Lunar Ascension o The Forbidden Path Across The Chasm Of Self-Realization come gli assi musicali di alcune scene tratte da un lungometraggio sulla civiltà figlia del Nilo. I toni permangono solenni ed austeri, una severa mistica intride come una fitta nebbia l'albo nella sua interezza, formando un discorso unitario negli umori, un tragitto dalle tappe diverse ma affini, come un paesaggio perennemente contiguo che muta solo in relazione a sottili dettagli. Le chiavi di lettura vanno rintracciate nei titoli, fortemente immaginifici ed in perfetto parallelo con la materia sonica che va sviluppandosi. The Elder God Shrine pare veramente porre in suono le onorificienze in nome di antichi dei proprio lì, sui loro altari, con quei cori da Carmina Burana ad elevarsi verso il minaccioso cielo gravido di saette. Od Of The Sleep Of Ishtar, nenia che circonda il dio Ishtar totalmente assorbito in una meditativa contemplazione. Dreaming Through The Eyes Of Serpents striscia subdola e le sue spire sono luccicanti come lame pronte ad affondare la carne: un'iride filiforme ci osserva, in attesa del momento propizio per sferrare il letale attacco. Whence No Traveler Returns ha un forte animo mediterraneo, aggravato da scale in minore che ghiacciano il calore (quasi latino in verità) dell'incipit iniziale. "Saurian Meditations" è un'opera dai forti accenti spirituali, nella quale le eco del passato diventano materia presente; album perfetto per l'immaginaria creazione di svaniti ma mai dimenticati scenari storici dall'incommensurabile forza evocativa e seduttrice.

(Relapse, 2004)
Awaiting The Vultures / Of The Sleep Of Ishtar / Luring The Doom Serpent / Contemplations Of The Endless Abyss / The Elder God Shrine / Temple Of Lunar Ascension / Dreaming Through The Eyes Of Serpents / Whence No Traveler Returns / The Forbidden Path Across The Chasm Of Self-Realization / Beckon The Sick Winds Of Pestilence

sabato 16 febbraio 2008

TIME OF ORCHIDS : Namesake Caution


Primo album su Cuneiform Records per i newyorkesi Time Of Orchids, reduci un paio d'anni fa dall'oscuro e fascinoso “Sarcast While”, fuori su Tzadik di John Zorn però (ed il primo “Melonwhisper” stava addirittura su Relapse). La militanza nei cataloghi di due etichette tanto particolari dovrebbe far rizzare le antenne a non pochi lì fuori. Si, perché i quattro americani formano un combo dalla formidabile duttilità compositiva, oltre a creare atmosfere cariche di tensione, nonostante la vena melodica sia quasi fiabesca e trasognata [Mean (Hush-Hush)]. Sono disturbanti e maligni e l'aver succhiato l'ostica politonalità ai padrini Thinking Plague non permette di raggiungere nessun punto di riferimento sicuro, nessun sostegno. Le composizioni appaiono così multiformi, nonostante si distendano attraverso strutture facilmente individuabili e più delineate rispetto al precedente albo, attualmente il loro vertice creativo e decisamente più strutturato e complesso. Darling Abandon è una (quasi normale) ballad se non fosse per un cantato tortuoso e per il suo fluire ad intermittenza. I Nostri armeggiano pure col math-rock di Laddio Bolocko e Dianogah in Gem ed un po' in tutto il disco. Sanno essere estremi senza dover per forza sforare nelle nerborute dimostrazioni di forza tipicamente metal, i loro sono colpi di fioretto taglienti come bisturi, ed è la corteccia cerebrale a risentirne: ne sono un buon esempio la lunga e stralunata We Speak In Shards o le movenze samba di Parade Of Seasons o le eco twinpeaksiane di The Only Thing. Le tastiere sono sempre presenti a far da tappeto, ed un certo mood caro ad Angelo Badalamenti si scorge qua e là (non a caso abbiamo scomodato “Twin Peaks” qualche parola fa). A dispetto degli accostamenti snocciolati tra queste righe, i Time Of Orchids fanno vedere di non essere emuli di nessuno e di voler perseguire un percorso fatto di sperimentazione e ricerca che, con Namesake Caution pare trovare un buon punto d'equilibrio ed una sicura affermazione di personalità ben definita. Colin Marston (bassista di Dysrhythmia e Behold...The Arctopus per chi non ne fosse al corrente) si è preso la briga di registrare queste dieci canzoni, e ciò potrebbe essere un ulteriore segno di garanzia sempre per chi ha le antenne ricettive. Ascolto non adatto a tutti, è bene dirlo, questa è materia piena di aculei che può essere apprezzata solo dopo ripetuti e mirati ascolti, essendo nei dintorni di un avant-prog piuttosto astruso. Chi ha pazienza e coraggio si avvicini pure, ne trarrà solo giovamento.

(Cuneiform, 2007)
In Colour Captivating / Windswept Spectacle / Darling Abandon / Parade Of Seasons / The Only Thing / Gem / Crib Tinge To Callow / Meant (Hush-Hush) / We Speak In Shards / Entertainment Woes

lunedì 11 febbraio 2008

JOHN DE LEO : Vago Svanendo



Alquanto difficile non scavare nel passato artistico di John De Leo, in quei Quintorigo che lo esposero all'attenzione di una fetta di ascoltatori dal palato fine, esigenti ed affamati di musica forbita e non convenzionale. Stessi tratti che si possono tranquillamente rintracciare in questa prima opera solista del cantautore romagnolo, summa di quanto negli anni il Nostro è riuscito ad apprendere, anche da esperienze extra-musicali: i rapporti di stima-amicizia con lo scrittore Alessandro Bergonzoni (qui presente in un monologo ritmato nella ghost-track a protesi della conclusiva Sinner), le ispirazioni avute da alcuni dipinti per la stesura di alcune canzoni ivi incluse, così come alcuni scritti di diversi scrittori. De Leo mostra quindi la sua dimestichezza intersemiotica che traduce immagini e parole in suoni e melodie. Vago Svanendo si rivela così un viaggio non adatto a tutti a causa di una spigolosità nelle strutture, nelle bizzarre trovate di "stratosiana" memoria che da sempre fanno parte del suo repertorio (un archetipo fu "Nola vocals" inclusa in "Grigio" dei Quintorigo), come ad esempio Canzo, momento di dialogico funambolismo tra voce e tromba (di Gianluca Petrella), o le architetture solo vocali di Freak Ship (ispirato da un quadro di Hyeronimous Bosch, "La nave dei pazzi", composto tra il 1490 ed il 1500). I concetti di follia e vagabondaggio nautico - in un probabile mare del chaos mentale? - sono spesso ripresi ed appaiono alla stregua di leitmotiv che animano l'opera: lo dimostrano anche Tilt (C'è Mattia?) che riverbera i Quintorigo più ilari e giocosi o il palese tributo alla canzone jazz d'autore alla maniera di Paolo Conte di Spiega La Vela. Elegante e sontuoso l'arrangiamento orchestrato sullo standard di Leonard Bernstein Big Stuff, dove emerge il lato più melodico e convenzionale del prisma vocale di De Leo, intento a caricare di vitree tinte un sinuoso e continuo intreccio di archi. Con Bambino Marrone (primo singolo prescelto) si fa largo una ludica voglia di giocare con la canzone pop, con un refrain che si distende spensierato mentre tutt'attorno l'arrangiamento è ispessito dall'uso di giocattoli atti ad ampliare lo spettro cromatico. Piace molto anche Le Chien Et Le Flacon in cui la linea vocale si tramuta in strumento aggiunto inseguendo e lasciandosi sorpassare dal restante tessuto con chitarra acustica e tromba in bella vista. Se dovessimo star qui a dire quale sia il brano più bello non potremmo non dire che questo sia L'Uomo Che Continua, che piace per il tono dimesso (grazie anche ad un immaginifico testo dai tratti acutamente esistenzialisti), per i contrappunti vocali nel refrain e per le fascinose e dissonanti movenze della chitarra. Questo primo capitolo in solitario di John De Leo mostra come ci siano artisti che appaiono sordi alle sirene del successo plastificato delle charts, mossi solo dall'urgenza e dalla necessità di raccontare il vasto mondo interiore che abita ogni uomo, avvalendosi di forme artistiche diverse ma contigue. La filigrana che lega il passato di De Leo al presente non è stata recisa e l'afflato istrionico di questo albo lo dimostra, lavoro di per sé dotato di suggestivo fascino.

(Carosello Records, 2007)
Intro: 4 Piano Notes / Freak Ship / Vago Svanendo / L'Uomo Che Continua / Canzo / Tilt (C'è Mattia?) / Spiega La Vela / Big Stuff / Bambino Marrone / Le Chien Et Le Flacon / Sinner

domenica 3 febbraio 2008

CULT OF LUNA : Salvation



Ammetto che solo in tempi recenti sono riuscito a comprendere la portata di un album come Salvation. Spesso, molto spesso direi, tante opere svelano tutto il loro valore dopo parecchio tempo e, parlando a titolo personale, questo terzo episodio discografico dei Cult Of Luna rientra perfettamente nella schiera. Quando quattro anni fa venne immesso sul mercato, l'accoglienza riservatagli da gran parte della critica fu alquanto tiepida. Non voglio certo mettermi qui a criticare i giudizi altrui o a fare del becero revisionismo, anche perché “Salvation” non è certo un capolavoro, è doveroso ammetterlo. Rappresenta una fase di transizione per il seven-piece svedese, un momento interlocutorio in cui i Nostri imboccarono la strada che li portò, lo scorso anno, alla forgiatura di un disco enorme come “Somewhere Along The Highway”, lavoro che la maggior parte della critica ha elogiato meritatamente. Il passaggio dalle scorie neurosisiane di “The Beyond” alle strane fattezze di “Salvation” spiazzò non pochi. Fatto sta che qui i Cult Of Luna iniziano a recidere quel cordone che li legava ai padri Neurosis, lavorando maggiormente ad un sound più personale, dove la potenza delle chitarre veniva in parte smagrita, caricando di contro il corpus sonoro di elementi fino a quel momento relegati ad un livello inferiore. Lunghe digressioni affluiscono in immaginifici ed ampi spazi di vuoto, radure fluttuanti che a momenti flirtano con l'ambient, in cui gli echi si accendono e spengono ripetutamente. Lo schiudersi di Echoes, l'intermezzo di Vague Illusions, gran parte della soffusa Crossing Over (che ammicca al diluito e sognante post-rock dei Sigur Ròs) ricalcano fedelmente questa tendenza alla rarefazione delle strutture. La maggiore consapevolezza nelle proprie capacità descrittive conduce i sette di Umea a dipingere climi notturni dove la luna è una gelida lampadina che buca il nero vellutato di un cielo dove gli astri sono evanescenti. La voce di Klas Rydberg è sempre urlata e sconfortata, si abbandona all'afflizione totale, come in preda ad un vigoroso pianto nervoso. La disperazione di una Leave Me Here vale invero più della metà dell'intero viaggio: uno spesso muro di onde ci scuote prima dell'abbandono in discesa verso l'abisso accompagnati da giri post-rock. Elemento quest'ultimo molto presente ma nel contempo plasmato secondo i dogmi della psichedelia, fuso con le sue esplorazioni spaziali. Le strutture del post-hardcore primigenio si dilatano per dare vita a qualcosa di fascinosa eleganza e di magari ancora acerba ma nel contempo innegabile particolarità. La prima parte di Waiting For You pare anticipare la desolazione di “And With Her Came The Birds” (inclusa in”Somewhere Along The Highway”), salvo poi innervarsi con un potentissimo riff che la fa letteralmente esplodere, dando luogo ad uno strumentale (solo nel finale è graffiata dalla voce di Klas) di dieci minuti di rara intensità. La maniacale cura delle dinamiche nei brani è un particolare fondamentale per l'economia del suono dei Cult Of Luna, i quali, lavorando su architetture a climax, lasciano che la profondità aumenti progressivamente. Stilisticamente parlando non è menzogna dire che qui le intuizioni del capolavoro “Kollapse” dei Breach vengono elaborate a dovere. Disco da riscoprire e sviscerare per coglierne l'essenza, carica di sfuggevole bellezza.

(Earache, 2004)
Echoes / Vague Illusions / Leave Me Here / Waiting For You / Adrift / White Cell / Crossing Over / Into The Beyond