giovedì 28 febbraio 2008

KARL SANDERS : Saurian Meditations



Potremmo tracciare, e senza nemmeno grossi problemi, due assi che congiungono perfettamente il Karl Sanders in forza ai Nile con quello solista. L'intersezione ci consentirebbe di vedere che l'Antico Egitto, il suo fascino e la passione del biondocrinito musicista americano è il perno di tutta la faccenda. In tempi recenti, ovvero con l'ultimo (ferocissimo) "Ithyphallic", i Nile hanno un pò accantonato quelle atmosfere cupe e tribali che, nel 2004, diventano materia prima per questo Saurian Meditations. Sanders accantona chitarre iperdistorte, tempi inumani e voci da oltretomba per proiettarci in un oltretomba differente, lontano cinque millenni, alle radici di quella che fu una tra le più affascinanti e misteriose tra le civiltà antiche. Molta della strumentazione impiegata è tipicamente araba (su tutte la baglama) e ciò aiuta Karl nei suoi intenti narrativi e descrittivi, creando un enorme abisso che lambisce spesso le fattezze della soundtrack. L'aura cinematografica di molti brani ivi inclusi è evidente e non solo per il fatto che "Saurian Meditations" si sviluppi in gran parte come lavoro avuto l'onore di fondersi emotivamente con le torbide ambientazioni degli SPK del capolavoro "Zahmia Lehmanni" può prepararsi per un nuovo itinerario che lo assorbirà, fin quasi a perdere contatto con l'inquinante realtà contemporanea. Non è affatto un crimine d'immaginazione provare ad accostare Contemplations Of The Endless Abyss o Temple Of Lunar Ascension o The Forbidden Path Across The Chasm Of Self-Realization come gli assi musicali di alcune scene tratte da un lungometraggio sulla civiltà figlia del Nilo. I toni permangono solenni ed austeri, una severa mistica intride come una fitta nebbia l'albo nella sua interezza, formando un discorso unitario negli umori, un tragitto dalle tappe diverse ma affini, come un paesaggio perennemente contiguo che muta solo in relazione a sottili dettagli. Le chiavi di lettura vanno rintracciate nei titoli, fortemente immaginifici ed in perfetto parallelo con la materia sonica che va sviluppandosi. The Elder God Shrine pare veramente porre in suono le onorificienze in nome di antichi dei proprio lì, sui loro altari, con quei cori da Carmina Burana ad elevarsi verso il minaccioso cielo gravido di saette. Od Of The Sleep Of Ishtar, nenia che circonda il dio Ishtar totalmente assorbito in una meditativa contemplazione. Dreaming Through The Eyes Of Serpents striscia subdola e le sue spire sono luccicanti come lame pronte ad affondare la carne: un'iride filiforme ci osserva, in attesa del momento propizio per sferrare il letale attacco. Whence No Traveler Returns ha un forte animo mediterraneo, aggravato da scale in minore che ghiacciano il calore (quasi latino in verità) dell'incipit iniziale. "Saurian Meditations" è un'opera dai forti accenti spirituali, nella quale le eco del passato diventano materia presente; album perfetto per l'immaginaria creazione di svaniti ma mai dimenticati scenari storici dall'incommensurabile forza evocativa e seduttrice.

(Relapse, 2004)
Awaiting The Vultures / Of The Sleep Of Ishtar / Luring The Doom Serpent / Contemplations Of The Endless Abyss / The Elder God Shrine / Temple Of Lunar Ascension / Dreaming Through The Eyes Of Serpents / Whence No Traveler Returns / The Forbidden Path Across The Chasm Of Self-Realization / Beckon The Sick Winds Of Pestilence

sabato 16 febbraio 2008

TIME OF ORCHIDS : Namesake Caution


Primo album su Cuneiform Records per i newyorkesi Time Of Orchids, reduci un paio d'anni fa dall'oscuro e fascinoso “Sarcast While”, fuori su Tzadik di John Zorn però (ed il primo “Melonwhisper” stava addirittura su Relapse). La militanza nei cataloghi di due etichette tanto particolari dovrebbe far rizzare le antenne a non pochi lì fuori. Si, perché i quattro americani formano un combo dalla formidabile duttilità compositiva, oltre a creare atmosfere cariche di tensione, nonostante la vena melodica sia quasi fiabesca e trasognata [Mean (Hush-Hush)]. Sono disturbanti e maligni e l'aver succhiato l'ostica politonalità ai padrini Thinking Plague non permette di raggiungere nessun punto di riferimento sicuro, nessun sostegno. Le composizioni appaiono così multiformi, nonostante si distendano attraverso strutture facilmente individuabili e più delineate rispetto al precedente albo, attualmente il loro vertice creativo e decisamente più strutturato e complesso. Darling Abandon è una (quasi normale) ballad se non fosse per un cantato tortuoso e per il suo fluire ad intermittenza. I Nostri armeggiano pure col math-rock di Laddio Bolocko e Dianogah in Gem ed un po' in tutto il disco. Sanno essere estremi senza dover per forza sforare nelle nerborute dimostrazioni di forza tipicamente metal, i loro sono colpi di fioretto taglienti come bisturi, ed è la corteccia cerebrale a risentirne: ne sono un buon esempio la lunga e stralunata We Speak In Shards o le movenze samba di Parade Of Seasons o le eco twinpeaksiane di The Only Thing. Le tastiere sono sempre presenti a far da tappeto, ed un certo mood caro ad Angelo Badalamenti si scorge qua e là (non a caso abbiamo scomodato “Twin Peaks” qualche parola fa). A dispetto degli accostamenti snocciolati tra queste righe, i Time Of Orchids fanno vedere di non essere emuli di nessuno e di voler perseguire un percorso fatto di sperimentazione e ricerca che, con Namesake Caution pare trovare un buon punto d'equilibrio ed una sicura affermazione di personalità ben definita. Colin Marston (bassista di Dysrhythmia e Behold...The Arctopus per chi non ne fosse al corrente) si è preso la briga di registrare queste dieci canzoni, e ciò potrebbe essere un ulteriore segno di garanzia sempre per chi ha le antenne ricettive. Ascolto non adatto a tutti, è bene dirlo, questa è materia piena di aculei che può essere apprezzata solo dopo ripetuti e mirati ascolti, essendo nei dintorni di un avant-prog piuttosto astruso. Chi ha pazienza e coraggio si avvicini pure, ne trarrà solo giovamento.

(Cuneiform, 2007)
In Colour Captivating / Windswept Spectacle / Darling Abandon / Parade Of Seasons / The Only Thing / Gem / Crib Tinge To Callow / Meant (Hush-Hush) / We Speak In Shards / Entertainment Woes

lunedì 11 febbraio 2008

JOHN DE LEO : Vago Svanendo



Alquanto difficile non scavare nel passato artistico di John De Leo, in quei Quintorigo che lo esposero all'attenzione di una fetta di ascoltatori dal palato fine, esigenti ed affamati di musica forbita e non convenzionale. Stessi tratti che si possono tranquillamente rintracciare in questa prima opera solista del cantautore romagnolo, summa di quanto negli anni il Nostro è riuscito ad apprendere, anche da esperienze extra-musicali: i rapporti di stima-amicizia con lo scrittore Alessandro Bergonzoni (qui presente in un monologo ritmato nella ghost-track a protesi della conclusiva Sinner), le ispirazioni avute da alcuni dipinti per la stesura di alcune canzoni ivi incluse, così come alcuni scritti di diversi scrittori. De Leo mostra quindi la sua dimestichezza intersemiotica che traduce immagini e parole in suoni e melodie. Vago Svanendo si rivela così un viaggio non adatto a tutti a causa di una spigolosità nelle strutture, nelle bizzarre trovate di "stratosiana" memoria che da sempre fanno parte del suo repertorio (un archetipo fu "Nola vocals" inclusa in "Grigio" dei Quintorigo), come ad esempio Canzo, momento di dialogico funambolismo tra voce e tromba (di Gianluca Petrella), o le architetture solo vocali di Freak Ship (ispirato da un quadro di Hyeronimous Bosch, "La nave dei pazzi", composto tra il 1490 ed il 1500). I concetti di follia e vagabondaggio nautico - in un probabile mare del chaos mentale? - sono spesso ripresi ed appaiono alla stregua di leitmotiv che animano l'opera: lo dimostrano anche Tilt (C'è Mattia?) che riverbera i Quintorigo più ilari e giocosi o il palese tributo alla canzone jazz d'autore alla maniera di Paolo Conte di Spiega La Vela. Elegante e sontuoso l'arrangiamento orchestrato sullo standard di Leonard Bernstein Big Stuff, dove emerge il lato più melodico e convenzionale del prisma vocale di De Leo, intento a caricare di vitree tinte un sinuoso e continuo intreccio di archi. Con Bambino Marrone (primo singolo prescelto) si fa largo una ludica voglia di giocare con la canzone pop, con un refrain che si distende spensierato mentre tutt'attorno l'arrangiamento è ispessito dall'uso di giocattoli atti ad ampliare lo spettro cromatico. Piace molto anche Le Chien Et Le Flacon in cui la linea vocale si tramuta in strumento aggiunto inseguendo e lasciandosi sorpassare dal restante tessuto con chitarra acustica e tromba in bella vista. Se dovessimo star qui a dire quale sia il brano più bello non potremmo non dire che questo sia L'Uomo Che Continua, che piace per il tono dimesso (grazie anche ad un immaginifico testo dai tratti acutamente esistenzialisti), per i contrappunti vocali nel refrain e per le fascinose e dissonanti movenze della chitarra. Questo primo capitolo in solitario di John De Leo mostra come ci siano artisti che appaiono sordi alle sirene del successo plastificato delle charts, mossi solo dall'urgenza e dalla necessità di raccontare il vasto mondo interiore che abita ogni uomo, avvalendosi di forme artistiche diverse ma contigue. La filigrana che lega il passato di De Leo al presente non è stata recisa e l'afflato istrionico di questo albo lo dimostra, lavoro di per sé dotato di suggestivo fascino.

(Carosello Records, 2007)
Intro: 4 Piano Notes / Freak Ship / Vago Svanendo / L'Uomo Che Continua / Canzo / Tilt (C'è Mattia?) / Spiega La Vela / Big Stuff / Bambino Marrone / Le Chien Et Le Flacon / Sinner

domenica 3 febbraio 2008

CULT OF LUNA : Salvation



Ammetto che solo in tempi recenti sono riuscito a comprendere la portata di un album come Salvation. Spesso, molto spesso direi, tante opere svelano tutto il loro valore dopo parecchio tempo e, parlando a titolo personale, questo terzo episodio discografico dei Cult Of Luna rientra perfettamente nella schiera. Quando quattro anni fa venne immesso sul mercato, l'accoglienza riservatagli da gran parte della critica fu alquanto tiepida. Non voglio certo mettermi qui a criticare i giudizi altrui o a fare del becero revisionismo, anche perché “Salvation” non è certo un capolavoro, è doveroso ammetterlo. Rappresenta una fase di transizione per il seven-piece svedese, un momento interlocutorio in cui i Nostri imboccarono la strada che li portò, lo scorso anno, alla forgiatura di un disco enorme come “Somewhere Along The Highway”, lavoro che la maggior parte della critica ha elogiato meritatamente. Il passaggio dalle scorie neurosisiane di “The Beyond” alle strane fattezze di “Salvation” spiazzò non pochi. Fatto sta che qui i Cult Of Luna iniziano a recidere quel cordone che li legava ai padri Neurosis, lavorando maggiormente ad un sound più personale, dove la potenza delle chitarre veniva in parte smagrita, caricando di contro il corpus sonoro di elementi fino a quel momento relegati ad un livello inferiore. Lunghe digressioni affluiscono in immaginifici ed ampi spazi di vuoto, radure fluttuanti che a momenti flirtano con l'ambient, in cui gli echi si accendono e spengono ripetutamente. Lo schiudersi di Echoes, l'intermezzo di Vague Illusions, gran parte della soffusa Crossing Over (che ammicca al diluito e sognante post-rock dei Sigur Ròs) ricalcano fedelmente questa tendenza alla rarefazione delle strutture. La maggiore consapevolezza nelle proprie capacità descrittive conduce i sette di Umea a dipingere climi notturni dove la luna è una gelida lampadina che buca il nero vellutato di un cielo dove gli astri sono evanescenti. La voce di Klas Rydberg è sempre urlata e sconfortata, si abbandona all'afflizione totale, come in preda ad un vigoroso pianto nervoso. La disperazione di una Leave Me Here vale invero più della metà dell'intero viaggio: uno spesso muro di onde ci scuote prima dell'abbandono in discesa verso l'abisso accompagnati da giri post-rock. Elemento quest'ultimo molto presente ma nel contempo plasmato secondo i dogmi della psichedelia, fuso con le sue esplorazioni spaziali. Le strutture del post-hardcore primigenio si dilatano per dare vita a qualcosa di fascinosa eleganza e di magari ancora acerba ma nel contempo innegabile particolarità. La prima parte di Waiting For You pare anticipare la desolazione di “And With Her Came The Birds” (inclusa in”Somewhere Along The Highway”), salvo poi innervarsi con un potentissimo riff che la fa letteralmente esplodere, dando luogo ad uno strumentale (solo nel finale è graffiata dalla voce di Klas) di dieci minuti di rara intensità. La maniacale cura delle dinamiche nei brani è un particolare fondamentale per l'economia del suono dei Cult Of Luna, i quali, lavorando su architetture a climax, lasciano che la profondità aumenti progressivamente. Stilisticamente parlando non è menzogna dire che qui le intuizioni del capolavoro “Kollapse” dei Breach vengono elaborate a dovere. Disco da riscoprire e sviscerare per coglierne l'essenza, carica di sfuggevole bellezza.

(Earache, 2004)
Echoes / Vague Illusions / Leave Me Here / Waiting For You / Adrift / White Cell / Crossing Over / Into The Beyond