domenica 25 febbraio 2007

EXPLOSIONS IN THE SKY : All Of A Sudden I Miss Everyone


Quello degli Explosions In The Sky è un film che abbiamo già visto altre volte. Sappiamo come inizia e come finisce, la nostra conoscenza della trama è a dir poco minuziosa. Non stupisca quindi se, mettendo il dischetto a girare nella piastra dello stereo, un insistente senso di dejà-vù rigurgiterà da qualche angolo della stanza. Il quartetto texano torna a due anni da “How Strange, Innocence” mantenendo intatto in maniera che più ortodossa non si può il proprio trademark. Con un'immagine di copertina a metà tra l'espressionismo carico della “Notte Stellata” di Van Gogh e i riflessi di luce su di un crespo pavimento d'acqua del Monet di “Impressions Du Soleil Levant”, il quarto album in studio degli Explosions In The Sky propone la formula che ha reso celebre il nome del gruppo: partenze timide con arpeggi appena sussurrati che si sovrappongono per generare un reticolo denso di melodiosi giri post-rock, cui si aggiungono progressivamente nuove figure melodiche, salendo inesorabilmente verso l'alto in maestosi crescendo, fino a deflagrare in accecanti e sognanti voli d'uccello, per poi spegnersi d'improvviso, planare verso il selciato e risalire in un ciclico altalenare. All Of A Sudden I Miss Everyone è tutto qui, nulla più, nulla meno. La trance estatica degli EITS non genera più gli effetti di qualche anno fa. Vuoi perché i Godspeed You! Black Emperor rimangono i campioni del post-rock orchestrale/strumentale, vuoi perché il genere, di per sé mostra la corda e le uniche vie di salvezza giungono dalla osmosi con progressive-rock e post-hardcore con nomi quali Pelican, Red Sparowes, Russian Circles tra gli altri. Gruppi che col post-rock hanno dei flirt parecchio consistenti (pur non rientrando totalmente nell'accezione) e che possiedono una componente descrittiva e votata al “viaggio sonoro” assolutamente superiore. Cosa che, a confronto, fa impallidire i texani, i quali ci propongono l'ennesimo remake di cui non sentivamo la mancanza.

(Temporary Residence, 2007)

The Birth And The Death Of The Day / Welcome, Ghosts / It's Natural To Be Afraid / What Do You Go To Home / Catastrophe And The Cure / So Long, Lonesome


domenica 18 febbraio 2007

THINKING PLAGUE : In Extremis


Certi gruppi non hanno la minima intenzione di concedere appigli all'ascoltatore che, irretito in un microcosmo di note come meteoriti che galleggiano e strutture che si sfilacciano, riesce a fatica a venire a capo di lavori tanto urticanti ed obliqui quanto dannatamente affascinanti. I Thinking Plague rientrano pienamente nel manipolo di ensemble che tutto danno al di fuori di certezze nei loro album. Sorti in Colorado nel 1981 con In Extremis superano nel 1998 l'ostacolo della terza prova in studio raggruppando composizioni scritte durante tempi diversi nel corso degli anni Novanta con una line-up differente dall'originale. Con schieramento a sette elementi (con una lista interminabile di compartecipazioni), i Thinking Plague appaiono sin da subito destabilizzanti, inoltrandosi in stranianti immaginari fiabeschi, ma di quelli con un finale tutt'altro che lieto (Kingdom Come lascia poco spazio a sorrisi, così come Maelstrom). Il telaio melodico è letteralmente lacerato, fatto a brandelli in continue asperità che smantellano progressivamente ogni nucleo tonale. La voce di Deborah Perry, intrisa di un'innocenza solo apparente, si staglia su di un sì tortuoso percorso strumentale in maniera istrionica, seguendone l'andazzo politonale con estrema naturalezza. La disintegrazione delle normali concezioni compositive conduce i Nostri a mettere nero su bianco l'odissea Les Etudes D'Organism, dove gli insegnamenti della scuola prog-jazz di Canterbury vengono sgretolati e metabolizzati secondo le esigenze del genio del gruppo, che si lancia in spericolate digressioni dall'animo circense. Quel che maggiormente colpisce dei Thinking Plague è la bravura nel non essere esplicitamente maligni, ma di strisciare velenosi, permeando le proprie composizioni, anche quando queste sembrano scanzonate, di un'inquietudine subliminale, avvertibile solo ad un livello inconscio. Un po' come se si estraessero le viscere metalliche agli Sleepytime Gorilla Museum. L'attitudine grottesca, a tratti quasi grandguignolesca, è la stessa.


(Cuneiform, 1998)

Dead Silence / Behold The Man / This Weird Wind / Les Etudes D'Organism / Maelstrom / The Aesthete / Kingdom Come

sabato 3 febbraio 2007

THE DEREK TRUCKS BAND : Songlines



A soli ventisei anni Derek Trucks è uno dei più importanti e, perché no, innovativi chitarristi rock/blues del panorama statunitense. In poco tempo si è guadagnato dapprima la stima dei fan degli storici Allman Brothers entrando in pianta stabile nella formazione di Gregg Allman (un po' del merito potrebbe anche andare alla sua parentela con lo storico batterista del gruppo, Butch Trucks, di cui Derek è nipote), e da circa dieci anni lavora a questo interessantissimo progetto di ricerca sonora (ma espanderemmo volentieri il concetto ad un livello più strettamente “culturale”), la Derek Trucks Band. Il suo stile chitarristico si compone di numerose sfumature, non solo per il caldo timbro adottato a metà tra il blues ed il jazz che offre così una più vasta gamma cromatica alla tavolozza dei suoni, ma anche (diremmo soprattutto) per l'ostinata propensione del giovane Derek a voler esplorare differenti linguaggi sonori provenienti da diverse culture, in una sorta di viaggio mistico (e non a caso il titolo dell'album è tratto da un libro incentrato sulla visione ascetica della musica da parte degli aborigeni australiani scritto da Bruce Chatwin) che si pone come fine ultimo il loro perfetto equilibrio in un solo, inscindibile corpus. Supportato da una formazione che infonde tecnica e cuore alla musica ivi suonata, Songlines vale la pena d'essere sviscerato nelle sue diverse prospettive. Basandosi sulla concezione compositiva tipica delle jam-band, appellandosi al suo retaggio da bluesman che gli consente di abbeverarsi anche a materiale non originale, Trucks mette subito sul piatto l'anima (quasi) gospel di Volunteered Slavery del compositore non vedente Rahsaan Roland Kirk, condita da fraseggi bluesati e di flauto, che funge da prologo all'incalzante rythm'n'blues con lievi svisature fusion di I'll Find My Way, in cui il coloured cantante Mike Mattison vi depone una prestazione sentita ed espressiva, grazie anche al suo timbro vocale avvolgente. In Crow Jane (essendo un traditional trasuda “oralità” da ogni dove) dimostra anche grande versatilità lanciandosi in un falsetto che a momenti richiama il fantasma di Janis Joplin (!). E’ con il qawwali griffato dal mai troppo rimpianto Nusrat Fateh Ali-Khan che Derek Trucks dipinge arabeschi e volte che gettano l'occhio su un giardino rigoglioso di profumate e misteriose vegetazioni su cui sorvolano coriacei ed ascetici volatili, tant'è forte e descrittiva la componente spirituale di Sahib Teri Bandi/Maki Madni. In slide-guitar è invece la rilettura della trascinante Chevrolet di Taj Mahal, anteponendosi in scaletta alla solarità quasi frivola e scanzonata del funkeggiante soul di Sailing On, come se ci trovassimo in un soleggiato e pigro pomeriggio domenicale a squarciare con la prua di una piccola barca il placido pavimento d'acqua a noi sottostante. In mezzo a tutto questo ben di Dio troviamo anche passaggi di sanguigno rock/blues come Revolution o liquidi e sinuosi andamenti in chiave reggae come quello di I'd Rather Be Blind, Crippled Crazy (a firma originale di OV Wright). Non appaia esagerato se si afferma che viene in mente Ian Anderson dei Jethro Tull quando ci si imbatte nel bell'assolo di flauto in costante rapporto dialogico con la chitarra in All I Do, composizione nata da un'emulsione di jazz, funky/soul e percussività etnica. Aspetto, quest'ultimo che sale in cattedra nella successiva Mahjoun, dove armonie esotiche si vestono di una trasparente veste rurale americana. Anche la seguente I Wish I Knew (How It Would Feel To Be Free) è una reinterpretazione: standard composto da Nina Simone intriso di gospel a più non posso, trascinante e gaudioso nel suo incedere, precede la conclusiva This Sky dai toni fortemente crepuscolari, tanto che pare inondare di rosso il cielo mentre un sole svogliato viene inghiottito dal punto più distante scorto dai nostri occhi. Songlines si rivela così un album dotato di una miriade di dettagli e particolari diversi che riescono a convivere tra di loro grazie ad una sapiente ed accurata miscela che li pone in giusta proporzione. Si delinea un emozionante quadro di non casuale libertà stilistica, in cui gli idiomi musicali/culturali appaiono inscindibili, in totale opposizione alla segregazione etnico/ideologica cui il mondo in cui viviamo tenta di indottrinarci giornalmente. Suoni che oltrepassano il mero concetto di musica.

(Columbia, 2006)
Volunteered Slavery / I'll Find My Way / Crow Jane / Sahib Teri Bandi - Maki Madni / Chevrolet / Sailing On / Revolution / I'd Rather Be Blind, Crippled Crazy / All I Do / Mahjoun / I Wish I Knew (How It Would Feel To Be Free) / This Sky