I Faun Fables mi conducono per mano in luoghi surreali, in scenari da fiaba nei boschi. Ma non sono storie a lieto fine dove tutti vivranno poi felici e contenti e sorridenti e metteranno su famiglia sfornando un branco di marmocchi che affollerà la contea come un'invasione di locuste. L'imprevisto è dietro l'angolo e spesso sento incombere una catastrofe che si rivelerà permanente, un danno irreparabile perpetrato da chissà quale oscura forza con una velenosa ed inarrestabile cattiveria. Sento occhi strisciare qui e là, nel buio, tra le fessure della vegetazione. Spiano, osservano e piccole lingue biforcute tramano piani diabolici.
Va bene, forse lascio che l'immaginazione viaggi un po' troppo slegata, ma è davvero quel che le loro canzoni mi suggeriscono, indipendentemente dai temi affrontati. L'inquietudine che traspira dalle atmosfere non si palesa con estrema evidenza, ma sorge pian piano tra le intercapedini, ribolle e sgorga per dipanarsi silenziosa e quando la scorgo è ormai una marea che sta per annegarmi.
Ok, sto esagerando.
Questo nuovo lavoro uscito nell'ottobre scorso, qui in Italia, non se l'è filato praticamente nessuno, a parte un paio di accorte webzine che non hanno esitato a elogiarne il potenziale. Si vede che tutti gli altri stavano tutti a sbrodolarsi su qualcos'altro. Me compreso, sia chiaro, che sono venuto a conoscenza dell'uscita di questo ultimo disco per puro caso qualche settimana fa.
Quarto lavoro per la coppia Dawn McCarthy – Nils Frykdahl (militante nei recentemente – e aggiungerei, tristemente – sciolti Sleepytime Gorilla Museum) e, senza ombra di dubbio, il punto più alto toccato in una carriera che si protrae da ben quattordici anni.
Light Of A Vaster Dark è in parte ispirato dagli scritti di Willa Cather e Laura Ingalls Wilder e batte la strada percorsa dal gruppo nelle precedenti pubblicazioni con un folk che richiama a chiare lettere la tradizione prog-folk britannica degli anni Sessanta, con Pentangle e Fairport Convention in veste di indubbi numi tutelari.
L'album ha una struttura particolare in cui degli Interludi fungono da spina dorsale e concorrono a dipingere quegli stranianti scenari fiabeschi cui accennavo all'inizio e di cui smetterò di parlare da qui alla fine di questo post. Promessa da chierichetto.
Qui dentro ci sono canzoni meravigliose nel loro stare in bilico tra tradizione dei settlers e ricerca melodica mai scontata: Housekeeper – che ha un eccellente solo di violino dall'afflato celtico -, Violet - che ricorda i bellissimi Espers -, la disperata title-track – che sa di foglie spazzate via da gelide brezze rigurgitate da un pozzo d'angoscia -, Hear The Grinder Creek – coi cori dissonanti che distorcono la scena per pochi istanti, come un fotogramma deforme che appare all'improvviso in una pellicola -, O Mary – il cui candore è prossimo a tramutarsi in infermo pallore -, Parade – che strizza l'occhio ai Jefferson Airplane - sono tutte figlie di una classe cristallina.
Il rituale di Sweeping Spell sa parecchio di Dead Can Dance, periodo-Spiritchaser.
Do atto ai Faun Fables di essere una band dall'estremo talento capace di non rendere mai banale un genere molto datato e di non cadere nella trappola del presunto plagio. Il loro peculiare tocco sulle composizioni è distinguibile tra le influenze e con questo album hanno raggiunto sul serio il perfetto punto di equilibrio tra solidità della scrittura, signorilità negli arrangiamenti, potenza evocativa.
Mi duole essere arrivato così tardi.
(2010, Drag City)