lunedì 28 marzo 2011

FAUN FABLES : Light Of A Vaster Dark


I Faun Fables mi conducono per mano in luoghi surreali, in scenari da fiaba nei boschi. Ma non sono storie a lieto fine dove tutti vivranno poi felici e contenti e sorridenti e metteranno su famiglia sfornando un branco di marmocchi che affollerà la contea come un'invasione di locuste. L'imprevisto è dietro l'angolo e spesso sento incombere una catastrofe che si rivelerà permanente, un danno irreparabile perpetrato da chissà quale oscura forza con una velenosa ed inarrestabile cattiveria. Sento occhi strisciare qui e là, nel buio, tra le fessure della vegetazione. Spiano, osservano e piccole lingue biforcute tramano piani diabolici.

Va bene, forse lascio che l'immaginazione viaggi un po' troppo slegata, ma è davvero quel che le loro canzoni mi suggeriscono, indipendentemente dai temi affrontati. L'inquietudine che traspira dalle atmosfere non si palesa con estrema evidenza, ma sorge pian piano tra le intercapedini, ribolle e sgorga per dipanarsi silenziosa e quando la scorgo è ormai una marea che sta per annegarmi.

Ok, sto esagerando.

Questo nuovo lavoro uscito nell'ottobre scorso, qui in Italia, non se l'è filato praticamente nessuno, a parte un paio di accorte webzine che non hanno esitato a elogiarne il potenziale. Si vede che tutti gli altri stavano tutti a sbrodolarsi su qualcos'altro. Me compreso, sia chiaro, che sono venuto a conoscenza dell'uscita di questo ultimo disco per puro caso qualche settimana fa.

Quarto lavoro per la coppia Dawn McCarthy – Nils Frykdahl (militante nei recentemente – e aggiungerei, tristemente – sciolti Sleepytime Gorilla Museum) e, senza ombra di dubbio, il punto più alto toccato in una carriera che si protrae da ben quattordici anni.

Light Of A Vaster Dark è in parte ispirato dagli scritti di Willa Cather e Laura Ingalls Wilder e batte la strada percorsa dal gruppo nelle precedenti pubblicazioni con un folk che richiama a chiare lettere la tradizione prog-folk britannica degli anni Sessanta, con Pentangle e Fairport Convention in veste di indubbi numi tutelari.

L'album ha una struttura particolare in cui degli Interludi fungono da spina dorsale e concorrono a dipingere quegli stranianti scenari fiabeschi cui accennavo all'inizio e di cui smetterò di parlare da qui alla fine di questo post. Promessa da chierichetto.

Qui dentro ci sono canzoni meravigliose nel loro stare in bilico tra tradizione dei settlers e ricerca melodica mai scontata: Housekeeper – che ha un eccellente solo di violino dall'afflato celtico -, Violet - che ricorda i bellissimi Espers -, la disperata title-track – che sa di foglie spazzate via da gelide brezze rigurgitate da un pozzo d'angoscia -, Hear The Grinder Creek – coi cori dissonanti che distorcono la scena per pochi istanti, come un fotogramma deforme che appare all'improvviso in una pellicola -, O Mary – il cui candore è prossimo a tramutarsi in infermo pallore -, Parade – che strizza l'occhio ai Jefferson Airplane - sono tutte figlie di una classe cristallina.

Il rituale di Sweeping Spell sa parecchio di Dead Can Dance, periodo-Spiritchaser.

Do atto ai Faun Fables di essere una band dall'estremo talento capace di non rendere mai banale un genere molto datato e di non cadere nella trappola del presunto plagio. Il loro peculiare tocco sulle composizioni è distinguibile tra le influenze e con questo album hanno raggiunto sul serio il perfetto punto di equilibrio tra solidità della scrittura, signorilità negli arrangiamenti, potenza evocativa.

Mi duole essere arrivato così tardi.

(2010, Drag City)


mercoledì 23 marzo 2011

JOHNNY CASH : At Folsom Prison


Questo è un cazzo di live. Sudato, intenso. Vissuto.

Quanti dischi dal vivo vengono pubblicati nel contemporaneo e iperaffollato mercato discografico con la stessa intensità, la stessa veracità, la stessa forza evocativa? Quelli d'oggi sono manufatti, “istantanee” - come piace tanto alle band chiamarli - false dalla testa ai piedi che non vengono mai lanciate in pasto ai fans, già pronti con gli euro stropicciati in mano, senza prima passare dalla sala operatoria per un bel lifting o una mastoplastica additiva che le renda impeccabilmente bugiarde. Live al botulino, pura plastica fondente 100%, meglio se arricchita da qualche ovazione degna dell'applausometro de La Corrida o di un'opprimente sit-com a caso. D'altronde, che ci si attende da una società che si specchia ammiccante nella sua terrificante bellezza in vitro?

Penso a Johnny Cash e sento la voce di uno che ne ha passate di cotte e di crude, ma che ha saputo conservare un'umanità ed una sensibilità profondissime, che sono poi affiorate in tutta la loro spoglia magnificenza nei lavori degli ultimi anni, su tutti la serie "American" registrata da Rick Rubin.

Poco importa se nella setlist alla Folsom Prison manchino alcuni cavalli di battaglia: Cocaine Blues, Folsom Prison Blues, 25 Minutes To Go, Orange Blossom Special valgono l'intero prezzo del biglietto, e non ho menzionato la toccante The Long Black Veil. Ma è uno show perfetto da cima a fondo tra ballate pastorali e accessi country da manuale. Musica che oltrepassa la pelle, s'intrufola nelle vene e si mescola col sangue diventando parte di te, frammento dell'enorme colonna sonora della tua vita.

Canzoni che sono storie di crimine, di esistenze trascorse dietro le sbarre tra passati difficili e presenti ancora più foschi. Ma Cash dà voce alla speranza dei reietti di questo mondo lercio ed ipocrita. 

Tossisce, sorride, interagisce col pubblico, Johnny. Sono le imperfezioni a rendere questo live l'immortale testimonianza di un evento che rivive nella sua riproduzione tecnica – ciao Benjamin.

La testimonianza di qualcosa dall'inestimabile valore. Di autentico. Di assolutamente umano.

(1968, Columbia)

domenica 20 marzo 2011

LONG DISTANCE CALLING : Long Distance Calling

 
Parlare in termini entusiastici di una band o un disco ad ogni post ridurrebbe questo blog ad una monotona bacheca di esaltazioni e, detto fra me e me – perché qui io parlo solo con me stesso – la faccenda comincerebbe a recarmi più sbadigli e sonnolenza che altro. Ogni tanto esporre il proprio rammarico per aver sprecato tempo e banda per un disco è un buon toccasana per ripristinare gli equilibri interiori.

I teteshki Long Distance Calling non si facevano vivi da due anni, ovvero da quando con “Avoid The Light” speravo di aver trovato i degni eredi dei Pelican, i quali dopo “Australasia” e “The Fire In Our Throats bla bla bla... “ si sono esposti al pubblico ludibrio con lavoretti che tacciare d'essere Orrendi è voler tenere la lingua educatamente a freno.

Questo eponimo terzo album del quintetto teteshko stenderebbe un orso tanto è inzuppato di luoghi comuni e di latitanza di pathos, quindi prevedibile e tedioso. Quello proposto è il solito copione che francamente conosco a memoria di lunghi brani post-rock tanto ligi ai dettami del genere e compiti che pure quando potrebbero spostarmi la scriminatura dei capelli dall'altra parte della testa con qualche bella sculacciata metallica pare che stiano accarezzando un cucciolo di foca appena nato col timore di fargli qualche graffietto.

Tutto ciò è insopportabile, lasciatemelo dire. Neanche la comparsa di John Bush, ex cantante degli Anthrax e uno che ti fa vibrare le guance come un phon gigante puntato in faccia con la sua vociona possente riesce a risollevare le sorti di questo dischetto: Middleville è una lunga power ballad che pare uscita dai Nickelback (con un po' più di gusto estetico, va detto).

Mi sa tanto che i Long Distance Calling siano degli eterni incompiuti. Ascoltandoli ho rivissuto quei patetici momenti nei ricevimenti scolastici quando la professoressa di turno, col suo sorriso maligno e ricco di soddisfazione informava mia madre – che poi si voltava verso me con un sorriso denso di rassegnazione – di avere un figlio «dalle grandi potenzialità ma che può fare molto di più». Ho pensato proprio a questo.

(2011, Superball Music)

sabato 19 marzo 2011

BELL ORCHESTRE : As Seen Through Windows


Andando a caccia di informazioni su una band mi sono imbattuto in questi Bell Orchestre. Rimasti in disparte per qualche mese, in questi giorni sto dedicando loro del tempo.

Il gruppo, che consta di sei componenti di base a Montreal, Canada, coinvolge anche due membri fissi degli Arcade Fire (Richard Reed Parry e Sarah Neufeld).

È musica sperimentale, di quella che soddisfa i miei appetiti. Sono parecchio astratti e cerebrali senza però scadere in monologhi autistici, hanno una spiccata componente colta senza per questo risultare affetti da irritante saccenteria. Impiegano spesso archi che li avvicinano ad ambienti da camera prossimi alla Penguin Café Orchestra, influenza troppo palese per non venire citata (su tutte l'iniziale Stripes), oltre a strumenti a fiato – tromba, trombone, corno e oboe - che conferiscono sontuose sfumature jazzy (soprattutto nell'emozionante title-track) e orchestrali.

L'umore generale del disco è tra il cupo e il trasognato con la testa ficcata dentro una crepa del muro per osservarne la realtà trasfigurata al di là.

Sanno riprodurre scenari d'oscura poetica ma anche eco provenienti da profondi moti marini (Elephants e c'è Julia Kent dietro l'angolo), poi si lasciano andare in improvvisi accessi gipsy, come dei Gogol Bordello ma più malinconici (The Gaze).

Disseminati qua e là ci sono riferimenti ai Clogs, ai Jaga Jazzist, al minimalismo di Philip Glass e ai The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e in Icicles/Bicycles si lasciano tentare dalla jungle. Il violino di Air Lines/Land Lines sembra venir fuori dalle sonate di Bach.

Tirano fuori pure una bellissima cover di Bucephalus Bouncing Ball di Aphex Twin, facendone emergere il lato melodico nascosto in quel groviglio d'elettronica d'autore.

Hanno pubblicato due dischi, As Seen Through Windows è il secondo – il primo è “Recording A Tape The Colour Of The Light” del 2005, fuori per Rough Trade.

Band davvero interessante da cui attendo un sequel degno, se non di più, di questo album.

(2009, Arts & Crafts)


SOUNDGARDEN : Live On I-5


 L'ho ascoltato oggi pomeriggio sulla loro pagina Facebook, in due rate perché tutto d'un fiato non ce l'ho fatta. È una collezione di canzoni live registrate durante il tour di supporto a "Down On The Upside" del 1996, l'ultimo lavoro in studio in ordine cronologico, fino ad oggi. Fino ad oggi perché i Soundgarden, dopo la fallimentare esperienza solista di Cornell - ridottosi tragicamente a vestire i panni di un aspirante Justin Timberlake quarantenne - hanno deciso di riunirsi, dapprima per alcune date live, negando fortemente la possibilità di scrivere del materiale inedito, salvo poi smentirsi appena qualche settimana fa. Insomma, da fan cresciuto a pane e grunge, con Soundgarden e Alice In Chains come portate predilette, mi preparo al peggio. Ok, Kim Thayil è sopravvissuto con alcune collaborazioni, alcune anche decenti; Matt Cameron s'è dato ai quattro quarti facili facili degli ultimi, discutibili Pearl Jam; Ben Shepherd non pervenuto (ma si vocifera sia stato on buona compagnia con un bel po' di bottiglie).

Che dire di questo live? Bella la tracklist con molti estratti da "Badmotorfinger", il disco che più apprezzo della loro carriera. Buona l'esecuzione strumentale ma niente di eccezionale. Vergognosa la performance di Cornell, spesso fuori nota, incapace di elevarsi vocalmente come in studio (ma questo è un fatto risaputo che è spesso emerso negli ultimi anni di attività della band ed acuito nelle recenti avventure di Cristoforo, vedi i dispensabili e ruffiani Audioslave).

Ah, una Rusty Cage così veloce non l'avrebbero suonata neanche i Sex Pistols - però il tiro ce l'ha. Da censura Jesus Christ Pose: non si può sfigurare un pezzo coi controcazzi come quello in quel modo.

C'è pure una cover di Helter Skelter dei Beatles e di Search And Destroy degli Stooges, per la cronaca. Solo per la cronaca.

Basta, lo mollo, non vorrei che la cena mi restasse qui - sto battendo la mano destra lì dove esofago e stomaco si incontrano amichevolmente.

Di buono c'è una copertina più in linea con la consueta iconografia del gruppo, elemento che era venuto a mancare col recente greatest hits "Telephantasm", in cui Josh Graham - curatore dell'artwork - ha dato il peggio di sé. 

(2011, Universal)


venerdì 18 marzo 2011

VIC CHESNUTT : Ghetto Bells


L'ho tenuto sepolto sotto la polvere per, quanto saranno stati, due anni? Forse tre. Lo avrò ascoltato sì e no un paio di volte, poi distratto da mille altre cose, me ne sono dimenticato. Probabilmente non mi aveva colpito più di tanto.

Piccola pausa di silenzio, poi fischietto guardandomi intorno.

Ok, faccio un sincero e completo mea culpa: non lo avevo capito. Non ero entrato in connessione col mood di questo che, insieme al precedente “Silver Lake”, è l'album più elaborato e quasi quasi il più affascinante del Vic Chesnutt degli ultimi anni.
L'ho (ri)scoperto un paio di settimane fa e ora non manca quasi mai di comparire tra i miei ascolti quotidiani.
Sono quindi due settimane che mi ritrovo con queste note che traspirano dalle casse e mi si posano sulla pelle come delicata brina. Ascoltare il compianto Vic intonare un canto d'amore come Virginia mi stringe il cuore in una morsa. Got To Me, Gnats, What Do You Mean? (in un teatrale scambio di incomprensioni tra Vic, cucciolo su di un trampolino, e un coro di voci femminili, quasi fossero l'incarnazione di una società incapace di accoglierlo e capirlo) sono sinceramente delle gemme di estrema eleganza. Ma è Forthright il gioiello di spoglia magnificenza: mi accompagna dolcemente verso un lago di confortevoli ricordi notturni e, centimetro dopo centimetro, m'immergo e trattengo il fiato e l'acqua mi accarezza e scorre intorno inesorabile, come i pensieri. Fuori parte un temporale che scheggia lo specchio d'acqua, ma in questo liquido tepore ciò non importa. Nulla ha più alcuna importanza.

(New West Records, 2005)


LIBRI : John Cheever , Il Nuotatore


Ritengo che la scelta della Fandango di mutilare “The Stories Of John Cheever”, la raccolta che fruttò al suo autore il Premio Pulitzer nel 1979, sia alquanto discutibile. Le opere fondamentali di uno scrittore, specialmente uno tanto importante (ma poco conosciuto dalle nostre parti) come John Cheever, andrebbero pubblicate nella loro interezza mettendo da parte certe arroganze imposte dal marketing.
In questo libriccino che ha lo spessore di un pamphlet (sono 56 pagine al “modico” prezzo di 5 euro), Fandango pubblica soltanto 3 estratti da quella raccolta, tra cui lo scritto più rappresentativo della poetica cheeveriana, ovvero il bellissimo e toccante “Il nuotatore” (che fu tradotto in opera cinematografica nel 1968 con Burt Lancaster). 
Lo stile di Cheever è pacato ed elegiaco e la sua prosa è avvolta da una semplicità linguistica che non ne ripudia la ricerca. Quelle di Cheever sono storie dell'America borghese di fine anni Cinquanta, quella benpensante che, sotto la maschera sorridente della quotidianità da mostrare ai vicini, occulta inquietudini e malesseri.
Il viaggio di Ned Merrill, il protagonista de “Il nuotatore” che attraversa l'intera contea nuotando da una piscina all'altra, è una serie di incontri che racchiudono ricordi, volti amici e cordiali radunati in feste, ma anche dolorose scie di un passato non del tutto chiuso. È uno sguardo spietato - ma architettato con estrema maestria - nella vita confortevole e apparentemente felice di Ned Merrill, in cui ogni cosa è gradualmente messa in discussione, persino il suo presente (che è invero sorprendente nella malinconica scena finale).
Ho trovato parecchio interessante anche “Una radio straordinaria”, leggendo il quale non ho potuto non ripensare ad uno dei "Sessanta Racconti" di Dino Buzzati, ovvero “Sciopero dei telefoni”. Anche qui ogni certezza pian piano scricchiola e le fobie prendono il sopravvento mentre Irene Westcott origlia le vicissitudini dei vicini grazie alla radio guasta regalatale dal marito. E temendo che la Felicità che negli anni si è illusa di costruire nel focolare domestico e di cui si avvolge ogni giorno come una calda placenta protettiva, Irene scopre gli spaventosi fori che pian piano si allargano, e si allargano e si allargano. Senza lasciarle scampo.

L'ombelico era scomparso, e Neddy si domandò che sensazione avrebbe provato una mano nel toccare i propri attributi nel letto, alle tre del mattino, e nel sentire una pancia senza ombelico, senza legami con la nascita, un'interruzione nella successione della specie?