domenica 29 aprile 2007

PORTLAND IN DARKNESS : 43rd Parallel with Conifer & Ocean

Prima ancora di essere una indie-label, 43rd Parallel è un collettivo di musicisti di Portland che, accomunati dalla passione per le pubblicazioni in vinile, si sono riuniti per produrre non solo le proprie band madre, ma anche altri piccoli gruppi del panorama stoner, doom e sludge americano. Le uniche notizie reperibili le si intercettano sul "solito" MySpace , dato che ancora l'etichetta è sprovvista di un proprio sito (attualmente in fase di allestimento). Non si sa quindi quando essa sia nata, ma è certo che il numero di pubblicazioni (finora solo split) è alquanto esiguo. Tra le band che hanno condiviso 10" e 12" ci sono i bostoniani Cortez, gli A Thousand Knives Of Fire, Sin Of Angels e Beneath Oblivion. Tirature limitatissime (dalle 350 alle 1000 copie circa) in diversi colori, giusto per stuzzicare gli irrefrenabili appetiti dei fans del formato vinile. Mi servo di questa piccola label come punto di partenza, o meglio, come trait d'union, per spendere qualche parola su due delle tre band che le hanno dato vita. Perché non tutte e tre è presto detto. Purtroppo i Moneycastasia non hanno ancora inciso nulla e l'unica testimonianza della loro attività è un video presente sulla loro pagina MySpace che è pressoché superfluo, data la brevità (giusto una ventina di secondi) e la pessima qualità audio. Nell'universo p2p non v'è traccia alcuna di registrazioni a loro intestate, penso che bisognerà attendere ancora un pò. Non resta che puntare i riflettori sulle altre due band coinvolte nel progetto.
Dal nome suggestivo tanto quanto le loro creazioni sonore, i Conifer sono un quartetto strumentale da tenere sott'occhio. Nell'unica loro release omonima del 2004 i Nostri flirtano con diversi linguaggi musicali. L'apertura di Troy pare sottratta alle radure ambientali dei Boards Of Canada, con le frequenze che si intrecciano e ribollono, prima che si innesti un arpeggio che i Mogwai della prima ora non avrebbero affatto disdegnato. Ed è solo l'inizio di un ammaliante viaggio, in cui le dinamiche sono cesellate perfettamente per creare grandi aree di pieni e vuoti che si interscambiano. Quando tutto sembra acquietarsi arrivano da chissà dove voci orrorifiche che paiono strangolarsi tra di loro, come se degli spiriti malvagi avessero deciso di manifestarsi in uno scontro fratricida accompagnato da un tessuto che nel frattempo ha assunto i tratti somatici del doom. È un continuo rifrangere di stili, un continuum che si spezza in continuazione, pur mantenendo una filigrana che gli impedisce di sfibrarsi e slacciarsi: si passa in un batter d'occhio dallo stoner al post-rock, da deflagrazioni di chitarre ad abbassamenti di intensità inattesi di origini ambient. Nella sola Troy, nei suoi venticinque minuti, è riassunta gran parte dell'essenza di Conifer, che nella successiva Turning Sand Into Glass si svolge quasi completamente in ambito stoner/doom, a differenza di Widowmaker, a metà strada tra i Mono ed i Tortoise meno squadrati. Albuquerque Reprise, dopo aver trovato valvola di sfogo in disperate urla confuse tra sedimenti di chitarra, plana verso climi notturni non proprio rassicuranti.
Altra formazione invischiata nella faccenda sono gli Ocean, forse quella di maggiore "spicco" tra le tre. Il quartetto di Portland è autore di Here Where Nothing Grows, monumentale debutto suddiviso in tre lunghi capitoli che, sommati, raggiungono la nient'affatto trascurabile durata di 65 minuti. Il loro monicker non può non rimandare alle maestosità di enormi masse d'acqua che si spostano, ingrossandosi e impiccolendosi sotto il regime delle maree. E la band non tradisce tali figurazioni con una musica magmatica ed epica, seguendo gli insegnamenti dei Burning Witch, ma soprattutto, accodandosi a quel sound sporco e fascinoso caro agli imprescindibili Buried At Sea (c'è Sanford Parker alla produzione) e agli Unearthly Trance degli esordi, oltre a non nascondere certe fascinazioni per momenti più onirici di estrazione prog-core/post-rock (come in The Salt, dove non è peccato intravedere i Pelican in mezzo). Sembrerà retorico, ma le tre composizioni di "Here Where Nothing Grows" hanno davvero il genoma dei flussi sonori, con crescendo inesorabili accompagnati da movenze lentissime (che raggiungono nella conclusiva The Fall le andature di un corteo funebre), ondeggiando in tenebrosi spazi marini dove la luce non filtra nemmeno per mezzo di volontà divine. L'opener First Reign è il giusto e solenne inizio del cerimoniale in cui è facile rimanere colpiti da quella voce lacerata e carica di malessere o da quelle chitarre sature che tanto piacerebbero ai Rwake, prima che si spenga, inabissandosi nelle profondità subacquee. Galleggiamo sospinti da una brezza nera che d'improvviso smette di soffiare e ci fa precipitare rovinosamente per terra. Storditi ci rialziamo e diamo un'occhiata in giro. Il vuoto assoluto ci circonda, pare volerci inghiottire. Come una maschera di ghiaccio, la paura veste i nostri volti. È la fine del viaggio, l'ultima fermata. Qui, dove nulla cresce.

CONIFER : Conifer
(Important! Records / 43rd Parallel, 2004)

OCEAN : Here Where Nothing Grows
(Important! Records / 43rd Parallel, 2005)

Links:
myspace.com/moneycastasia

myspace.com/conifer - conifermusic.com

myspace.com/ocean - oceanofdoom.com

venerdì 20 aprile 2007

STRAPPING YOUNG LAD : City


Impressionante capolavoro della scena metallica della scorsa decade, City è anche un disturbante ed estremo manifesto delle barbarie psichiche che il sistema sociale contemporaneo perpetra giornalmente nei confronti degli individui, annientandone le attività mentali, rendendoli emeriti parassiti svuotati di ogni impulso umano, incapaci di instaurare profondi rapporti col prossimo. Di tale situazione si fanno portavoce gli Strapping Young Lad dello psicopatico e genio ipercreativo Devin Townsend. Belluini fabbri di furia metallurgica, i Lads penetrano fin dentro le viscere del sistema per ridurlo in polveri impercettibili, frantumandone ogni regola con intenti iconoclasti e sovversivi. La metropoli è il grembo entro il quale ogni singolo ego annega nell'oceano dell'anonimato, serrato negli inumani orari di lavoro, farciti come polpettoni con tutta la spazzatura che i mass-media proiettano ogni santo giorno, adepti del pagano culto dell'oggetto, automi che affollano con occhi spauriti i marciapiedi dell'enorme agglomerato urbano che li fagocita lentamente. L'odio nei confronti della massa amorfa senza ideologie ed obiettivi raggiunge come un razzo infiammato pericolosi stadi di parossismo acuto. Un gran bel vaffanculo alto quanto un grattacielo è servito con ghigno isterico alla stupid people e alle loro useless fucking lives. Un tale catastrofismo a livello lirico non poteva non bearsi di un contorno sonoro trita-timpani e sciogli-cervella. Avendo in line-up un'assoluta belva ferina come Gene Hoglan alla batteria e altrettanto dotati “commilitoni” come Jed Simon alla seconda chitarra e Byron Stroud al basso, il buon Devin si sguinzaglia con belligeranti intenti per scatenare l'apocalisse. Tonnellate di chaos cibernetico, suoni convulsivi e formicolanti che sedimentano come macigni su distorsioni che sono bisturi poggiati poco simpaticamente alla gola, pronti ad affondare, assolute estremizzazioni degli schemi dettati dai Fear Factory di “Demanufacture”. Velvet Kevorkian è la dichiarazione di guerra, All Hail The New Flesh, oltre ad essere il manifesto programmatico dell'intera opera, è la genesi della mattanza, tempesta di battute e riff affilati su cui si stagliano le impetuose melodie di Townsend. “City” non è infatti tutto rumore come solo gli ascoltatori più disattenti (o magari, disabituati a tanta devastazione sonora) potrebbero intendere. Al suo interno si agitano sempre grandi ed epiche melodie che concedono una più vigorosa intelligibilità, come il finale di Detox testimonia, solco informato da un riff che esce dalle casse come una mannaia su un impianto ritmico a tratti power-thrash. Oh My Fucking God è la vetta più alta della ferocia nichilista dei quattro, con frangenti di rumore elevato ad infinito, delirio pulsante che si estrinseca soprattutto nei versi, impossibili da decifrare durante l'ascolto. Devin è lo strizzacervelli in perenne crisi di nervi, sbraita come fosse posseduto, declama, manda affanculo tutto e tutti, apre puliti squarci e poi torna col suo fare farneticante, ma non senza quel suo sense of humour degno dei geni incontaminati come lui. Da queste parti il disordine è regolato da ferrei paradigmi di lucida follia. Hoglan è letteralmente polverizzante col suo drumming da drum-machine (in)umana: il suo ingresso in All Hail The New Flesh è una letale crisi tachicardica, tanto per fare un piccolo esempio. Home Nucleonics è una bomba pronta ad esplodere sotto i caldi guanciali degli stupid human beings, messi in guardia del fatto che la technology will hit us while you're looking for a man. E a quel punto nutrire rimorsi sarà del tutto inutile, nonché fuori tempo massimo. Tutto ciò funge da preambolo al momento più “normale” del disco, AAA, marziale e sinuoso tempo medio che più si avvicina morfologicamente ad una comune canzone. La cover di Room 429 dei Cop Shoot Cop sta proprio in mezzo all'ennesima sfuriata di ira funesta di Underneath The Waves e la conclusiva Spirituality, la cui maestosità appare come la proclamazione di una vittoria sugli impertinenti ed anonimi individui su cui si sono riversate così tante scariche elettriche sterminatrici. O, più verosimilmente, come la ricerca di una spiritualità oramai persa nel sistema di valori collettivo, riponendo una fioca speranza sull'esistenza di qualcuno che là fuori senta ancora il bisogno di averne una. Un'esplosione nucleare di veemenza mai vista prima, questo album ha spostato più avanti il baricentro dell'estremismo musicale alla maniera di un vento atomico. Osservato attraverso la lente “sociologica”, “City” è un oltranzista urlo che buca come la punta di un trapano la cortina fumogena della “fasulla personalizzazione” (suonerie personalizzate, accessori personalizzati, vacanze personalizzate e via di personalizzazione andando) svenduta a buon mercato da chi punta al controllo totale dei comportamenti della massa, sempre più frustrata da un benessere tecnologico che è solo un palliativo propinatole per star zitta e continuare a muoversi nello scacchiere del mercato, resi giorno dopo giorno disumanizzati vagabondi delle enormi strade della metropoli, che di questo “inarrestabile progresso” è il simbolo più vistoso. Fedele specchio del disordine ideologico/morale che regna sovrano nell'età contemporanea (ed in dieci anni dalla sua pubblicazione la situazione è andata solo peggiorando), non ci si scandalizzi affatto del suo codice genetico altamente distruttivo e violento. Una società estrema non può non dar adito alla nascita di opere estreme. E “City” è, tra queste, uno dei capolavori supremi.

(Century Media, 1997)
Velvet Kevorkian / All Hail The New Flesh / Oh My Fucking God / Detox / Home Nucleonics / AAA / Underneath The Waves / Room 429 / Spirituality

mercoledì 18 aprile 2007

DEAD CAN DANCE : The Serpent's Egg

Un organo austero in tensione su una nota, lievi gorgheggi che si elevano verso dapprima medie, poi sempre più alte vette. Silenzio. Esplosione di venti che convergono in un brivido che taglia come una lama la schiena ed è apoteosi che, lentamente, plana ondeggiando in picchiata sul selciato per spegnersi. Nella sola The Host Of Seraphim è condensata l'emozione di intere carriere di gruppi e solisti che nemmeno sommando l'intensità del loro repertorio tutto toccherebbero tali, inusitati vertici di pienezza emotiva. Per i Dead Can Dance invece rappresenta il battesimo al cardiopalma per uno dei loro album più riusciti di sempre, The Serpent's Egg. Lisa Gerrard veste i panni della medium tra questo e chissà quale ultra-terreno mondo sfoggiando i suoi proverbiali lirismi. Dapprima dettando l'andamento ritmico con le sillabe proferite dalle due linee vocali che si intrecciano nella raggelante Orbis De Ignis; tratteggerà poi arabeschi nella monodica Song Of Sophia o si prostrerà all'offerta di litanie dall'afflato pagano decorate da funerei rintocchi di campana in un incedere ossessivo e reiterato (Chant Of The Paladin) o ancora in volteggi su nude composizioni dallo spirito medievale (The Writing On My Father's Hand). Ecolalia ha la sintomatologia della soundtrack di un film sulla misteriosa storia di una civiltà scomparsa, donando minacciose melodie ad una ipotetica scena di guerra primordiale. Anticamera perfetta per il tribalismo “amazzonico” di Mother Tongue, selvaggio nelle sue percussioni che paiono provenire direttamente dal sottosuolo. Brendan Perry appare autoritario e declamatorio, salendo in cattedra nella pastorale Severance, la cui partenza liturgica darà poi spazio sul finire ad una successione melodica d'ispirazione celtica, o tra i lampi gotici di In The Kingdom Of The Blind The One-Eyed Are Kings, per giungere alla ballata “barocca” da odissea interiore di Ullyses. Il sepolcro è chiuso.

(4AD, 1988)
The Host Of Seraphim / Orbis De Ignis / Severance / The Writing On My Father's Hand / In The Kingdom Of The Blind The One-Eyed Are Kings / Chant Of The Paladin / Song Of Sophia / Ecolalia / Mother Tongue / Ulysses.

mercoledì 11 aprile 2007

IMPRESSIONS #1

L'enorme mole di album di cui vorrei riferire settimanalmente e l'evidente impossibilità (per ragioni di tempo), congiunti alla sempre crescente logorrosi musicale (mi andrebbe anche di parlare di altro ogni tanto, ma sono cose troppo intime, preferisco la mia più confidenziale Moleskine), mi inducono a ripiegare su recensioni più o meno brevi, evitando il solito "ingigantimento" su una sola opera. Nessuna connessione tra i dischi trattati, semplici ascolti fatti in tempi recenti e nulla più. Il fatto che le abbia chiamate "impressions" ha un suo perché: le mie sono solo impressioni, non sentenze.

ANTIGAMA : Zeroland
(Selfmadegod Records, 2005)


Esordiranno presto su Relapse, speriamo facendoci seriamente del male, gli Antigama, il cui nuovo full-length "Resonance" è schedulato per il 15 maggio prossimo. Durante questa dolce attesa mi è sembrata cosa buona e giusta rispolverare Zeroland, pernicioso delirio del quartetto polacco oramai vecchio di due anni. Calati negli inferi del grind-core più selvaggio, i Nostri ne manipolano le soluzioni con voci un pò più pulite (ma puntualmente filtrate) e aggiungendo una varietà strutturale che non ne confina gli svolgimenti alle sol(it)e scorribande votate alla carneficina. Per certi versi potrebbero aprire una breccia psichedelica (ed industrialoide) all'intransigente cortina di uno dei generi estremi che, grazie a menti assolutamente geniali come Dillinger Escape Plan, Nasum e The Locust (e tutta la trafila di discendenti), è riuscito in tempi recenti a rinnovarsi e, perché no, ad evolversi dando una scossa anche ad ambiti sonori limitrofi. Otto brani (più la title-track che è una outro di "soli" nove minuti e mezzo) dalle durate striminzite per un album che fila via veloce, ma non senza lasciare i segni del suo passaggio. Come da tradizione molte delle loro arringhe si sviluppano su corse al cardiopalma, inframezzate da repentini stacchi e ripartenze altrettanto improvvise. Anche quando le movenze si fanno un pò più caute con Sorry il discorso rimane inalterato nella sua escoriante linea oltranzista. Che il nuovo album possa consacrarli?




HELLYEAH : Hellyeah
(Epic Records,
2007)



Onore a Vinnie Paul che, dopo la tragica scomparsa del leggendario fratello Dimebag Darrell, ha avuto la forza di rialzare la testa e rimettersi in carreggiata. Suoi nuovi vompagni di ventura sono adesso Chad Gray e Greg Tribbett (rispettivamente cantante e chitarrista dei Mudvayne) ed il duo proveniente dai Nothingface Jerry Montano (basso) e Tom Maxwell (chitarra). In molti resteranno abbagliati dai nomi coinvolti, complici anche i toni esorbitanti utilizzati da alcuni autorevoli magazine esteri che ci presentano gli Hellyeah, volendocelo anche far credere, come un imprescindibile supergruppo. Mai assunto fu più lontano dalla realtà. Partendo da quanto proposto recentemente dai Damageplan, i Nostri cercano di riprenderne l'impatto ed il riffing, nonchè la struttura stessa delle canzoni, ma senza quella carica che nei succitati non è che fosse poi così spiccata. La brutta copia di un originale già sbiadito quindi. Le songs sono sterili giochetti da (finti) duri e tamarri, prive del benché minimo spunto creativo. La voce è graffiante e non ripudia certe inflessioni melodiche (You Wouldn't Know), ma il tutto scorre senza lasciare la minima traccia. I riff vorrebbero essere tosti unendo nu-thrash, hard-rock dal taglio alquanto moderno e southern, ma questo è un discorso trito, ritrito, e persino avariato. Alcohaulin' Ass è uno degli episodi che si salvano, ma sta troppo dalle parti dei Lynyrd Skynyrd. L'opener Hellyeah cerca di squoterci ed è una missione che porta a termine solo ai primi passaggi sulla piastra; qualcosina si salva poi sul finale, ma non ci si immaginino chissà quali miracoli. La sagra dello sbadiglio è servita. Gli Hellyeah puntano molto sulla (presunta) immediatezza di una proposta che non ha un gran bel niente da dire al giorno d'oggi, un'innocua "dimostrazione di potere" che da queste parti non c'è. Disco perfetto per le charts (in quanti si lasceranno abbindolare dai nomi coinvolti nell'operazione?), ma che non sarà poi tanto difficile che si impolveri e sprofondi in un meritatissimo oblio in tempi più brevi di quanto ci si possa immaginare.



RED SPAROWES / GREGOR SAMSA : Red Sparowes / Gregor Samsa (Split)
(Robotic Empire, 2006)



Qualche mese prima di fare il definitivo botto col recente (e meraviglioso) "Every Red Heart Shines Toward The Red Sun", i Red Sparowes pubblicano uno split con Gregor Samsa, eccelso compositore della scena post-rock/slow-core statunitense. Due composizioni a testa per un visionario viaggio che ha inizio tra le distese spaziali dei "passeri rossi", coi loro continui giochi tra spazi pieni e spazi vuoti, crescendo inesorabili di malinconica bellezza, ed epiche melodie che tuonano fragorose tra le maglie del vento. Albe radiose e foschie argentee prendono forma mentre le chitarre ne spianano il corridoio verso un abbacinante infinito. Due perle di classe estrema, come sempre. Non è da meno il coinquilino Samsa. La sua è una poetica onirica e riflessiva, piena di mestizia che non tracima mai nello sconforto più assoluto. Al suo interno risiede la speranza per una quiete interiore che non può non giungere senza un precedente imbrunire dell'io. I passi iniziali di Young & Old / Divine Longing sembrano richiamare il tema portante della soundtrack di "Twin Peaks", ma va da sè, semplici assonanze. Il canto di Gregor è estremamente confidenziale, levigato e placido seguendo una linearità melodica ricca di grazia. Le architetture delle sue composizioni si rivolgono alla maestosità degli archi, soprattutto nel solenne finale della già citata Young & Old, indubbiamente la migliore tra le due ivi incluse recanti la firma di Samsa. Vibrante e per certi versi anche toccante alla maniera dei Sigur Ròs di "Agaetys Birjuyn", una candida e dolce sorpresa.


JACK ROSE :
Jack Rose
(VHF, 2006)

Trasferitosi a Philadeplhia nei primi anni di questo nuovo secolo, Jack Rose, già componente del trio drone/noise Pelt, intraprende una carriera solista che ha come unico protagonista la sua sei corde. Questo eponimo lavoro è uscito lo scorso anno e consta di sette tasselli di blues acustico in cui il fingerpicking si incrocia con lo slide. Lirismo dai toni campestri, bucolici e solitari a cui viene dato vigore dal perenne strisciare dello slide, il quale plasma ora melodie fiammeggianti (Dark Was The Night), ora intarsi dalle tinte country (Revolt), ora movenze circospette ma allo stesso tempo intriganti (Levee), ora sobri temi tipici dello slow-blues (St. Luois Blues). Spirits In The House è un lungo percorso in lande meditative increspate da arpeggi a cascata, come se si stesse seguendo uno dei percorsi ascetici di Derek Trucks. Non per tutte le orecchie, ma senza dubbio un lavoro amabile.


VIRUS : Carheart
(Jester Records, 2003)



Chissà se sentiremo più parlare dei Virus. E non nego che tra queste parole si agita un velo di rammarico. Il chitarrista/cantante Czral è tornato di recente nei suoi Ved Buens Ende, appena ripresosi da quel drammatico volo da un palazzo di Oslo che stava per costargli la vita nel marzo del 2005. Per il momento, il progetto pare essere stato messo in stand-by a tempo indeterminato. Sorto nel 2000, l'anno successivo il marchio Virus esordisce con "The Drama Hour", riproposto nel 2003 con il titolo di Carheart sotto l'egida della Jester Records, etichetta gestita dai membri degli Ulver. La miscela del terzetto norvegese (sono della partita anche il bassista Plenum ed il batterista Esso) è parecchio complessa e stratificata. La chitarra è in perenne tensione tra accordi in minore di origine black metal e le dissonanze stranianti dei Voivod, la voce è declamatoria pur senza possedere il piglio del padrone, nonostante non manchi di incutere una certa reverenza. "Carheart" è un film in bianco e nero dove ogni tanto si scorge qualche macchia di sangue vivo rigurgitata dal sottosuolo. La fluidità a monte del discorso è un fatto sul quale non si può soprassedere, soprattutto se messo in relazione a suoni tanto spigolosi, a tracciati tortuosi dai ripetuti passaggi jazzati ma non per questo eccessivamente inestricabili. Hustler e 4 si risolvono su arpeggi sinistri che fungono da linea portante per tutto lo svolgimento. Ossessivi e dall'animo catastrofico, nelle loro trame risiedono abrasioni dal vago sentore industrial e progressioni ricamate direttamente sullo stoner. "Carheart" è invero un misterioso gioiello del sottobosco psych/prog contemporaneo. Affrontarlo è una vera goduria.





domenica 1 aprile 2007

SOUL COUGHING : El Oso



È un vero peccato che il passaggio dei Soul Coughing nel panorama musicale non sia stato notato da una porzione di pubblico maggiore di quella che, invece, rivolse loro la propria attenzione. Forse il fatto di essere assolutamente inclassificabili e (fin troppo?) originali li ha estromessi da un audience per certi versi ingrato. Nati a New York nel 1992 per volontà del singer Mike Doughty, mente del progetto, il quartetto giungerà solo nel 1994 all'esordio col singolare "Ruby Vroom", già sotto l'egida del colosso Warner Bros. E non è difficile cogliere la particolarità della loro proposta: suoni strambi per un pop che si intreccia col jazz e col funky, dando vita a canzoni sghembe, quasi stralunate. Due anni più tardi è la volta di "Irresistible Bliss" che segna un piccolo passo indietro, almeno sotto un profilo prettamente qualitativo (nonostante contenga uno dei loro episodi migliori di sempre, "Sugar Bon Bon"). La definitiva maturità dei Soul Coughing giunge nel 1998 con l'epitaffio El Oso, perfetto compendio di un cammino evolutivo che arriva ad una solidità nella scrittura prima di allora non conquistata e ad una precisa ricerca nei suoni che sono elemento fondamentale nell'impianto del gruppo e principalmente di quest'opera. Ogni song si sviluppa su una semplicissima idea di base che ne informa completamente l'asse di svolgimento. C'è una linearità costante nel fluire dei brani, con un ricorso perenne alle reiterazioni di segmenti melodici, versi brevi che giungono fluidamente ai chorus. Quindi canzoni concise, senza sbrodolamenti di nessun tipo. È così che si raggiunge la perfezione di Rolling e St.Luoise Is Listening, momenti in cui gli arrangiamenti sono di profonda importanza per non rendere banali idee sostanzialmente molto agili. La batteria è quadrata, scandisce i tempi con quel rullante metallico caratteristico dei Soul Coughing, andandosi ad intrecciare con traiettorie di basso sbilenche e cariche di groove, un groove a momenti hip-hop (influenza palese anche nel modo di cantare di Doughty, che ricorre spesso a dei rap leggermente modulati). I meccanici stridori di Misinformed e Houston sembrano venuti fuori da uno di quei videogiochi tipici degli anni '90, Circles è una perfetta hit per un'estate calda e pigra, frizzante e frivola con la sua apparente ingenuità melodica. In Blame pare che il basso si sia tramutato in un elastico, si allunga e ritorce su se stesso, mentre al di sopra il motivo si ripete come un'ossessione. Maybe I'll Come Down rivolge tutta la sua sinuosità col suo incedere svogliato, il pianoforte a dare più colore ad un arrangiamento parecchio scarno. $300, Monster Man, I Miss The Girl portano in seno un'aria minacciosa ed incalzante, complici le ritmiche drum'n'bass a sostegno. Pensacola è invece sussurrata, evanescente nel suo essere quasi assente per una buona metà, The Incumbent è un rap à la Beck, a tratti anche spigoloso. La band deciderà di cessare la sua ttività nel marzo del 2000. Qualcuno si darà al cinema indipendente (Mark de Gli Antoni - tastiere ed effetti), chi formerà nuovi progetti (gli UV Ray del bassista Sebastian Steinberg e del batterista Yuval Gabay), chi porterà avanti una carriera solista sempre relegata all'underground (Doughty ha finora pubblicato il non esaltante "Haughty Melodic" nel 2005). Nel 2002 uscirà un ottimo greatest hits, "Lust In Phaze", buona scusa per approcciarsi in maniera quasi completa al discorso sonoro del four-piece statunitense. Che verrà ricordato come una tra le entità migliori degli anni novanta, quantomeno nella sperimentazione in fatto di canzone pop, un gruppo interessante e divertente, da (ri)scoprire senza alcun indugio. Chi ha apprezzato gli Skeleton Key di "Obtainium" non può non rintracciare l'etimo della proposta proprio tra questi solchi.

(Warner Bros, 1998)
Rolling / Misinformed / Circles / Blame / St. Luoise Is Listening / Maybe I'll Come Down / Houston / $ 300 / Fully Retractable / Monster man / Pensacola / I Miss The Girl / So Far I Have Not Found The Science / The Incumbent.