mercoledì 11 aprile 2007

IMPRESSIONS #1

L'enorme mole di album di cui vorrei riferire settimanalmente e l'evidente impossibilità (per ragioni di tempo), congiunti alla sempre crescente logorrosi musicale (mi andrebbe anche di parlare di altro ogni tanto, ma sono cose troppo intime, preferisco la mia più confidenziale Moleskine), mi inducono a ripiegare su recensioni più o meno brevi, evitando il solito "ingigantimento" su una sola opera. Nessuna connessione tra i dischi trattati, semplici ascolti fatti in tempi recenti e nulla più. Il fatto che le abbia chiamate "impressions" ha un suo perché: le mie sono solo impressioni, non sentenze.

ANTIGAMA : Zeroland
(Selfmadegod Records, 2005)


Esordiranno presto su Relapse, speriamo facendoci seriamente del male, gli Antigama, il cui nuovo full-length "Resonance" è schedulato per il 15 maggio prossimo. Durante questa dolce attesa mi è sembrata cosa buona e giusta rispolverare Zeroland, pernicioso delirio del quartetto polacco oramai vecchio di due anni. Calati negli inferi del grind-core più selvaggio, i Nostri ne manipolano le soluzioni con voci un pò più pulite (ma puntualmente filtrate) e aggiungendo una varietà strutturale che non ne confina gli svolgimenti alle sol(it)e scorribande votate alla carneficina. Per certi versi potrebbero aprire una breccia psichedelica (ed industrialoide) all'intransigente cortina di uno dei generi estremi che, grazie a menti assolutamente geniali come Dillinger Escape Plan, Nasum e The Locust (e tutta la trafila di discendenti), è riuscito in tempi recenti a rinnovarsi e, perché no, ad evolversi dando una scossa anche ad ambiti sonori limitrofi. Otto brani (più la title-track che è una outro di "soli" nove minuti e mezzo) dalle durate striminzite per un album che fila via veloce, ma non senza lasciare i segni del suo passaggio. Come da tradizione molte delle loro arringhe si sviluppano su corse al cardiopalma, inframezzate da repentini stacchi e ripartenze altrettanto improvvise. Anche quando le movenze si fanno un pò più caute con Sorry il discorso rimane inalterato nella sua escoriante linea oltranzista. Che il nuovo album possa consacrarli?




HELLYEAH : Hellyeah
(Epic Records,
2007)



Onore a Vinnie Paul che, dopo la tragica scomparsa del leggendario fratello Dimebag Darrell, ha avuto la forza di rialzare la testa e rimettersi in carreggiata. Suoi nuovi vompagni di ventura sono adesso Chad Gray e Greg Tribbett (rispettivamente cantante e chitarrista dei Mudvayne) ed il duo proveniente dai Nothingface Jerry Montano (basso) e Tom Maxwell (chitarra). In molti resteranno abbagliati dai nomi coinvolti, complici anche i toni esorbitanti utilizzati da alcuni autorevoli magazine esteri che ci presentano gli Hellyeah, volendocelo anche far credere, come un imprescindibile supergruppo. Mai assunto fu più lontano dalla realtà. Partendo da quanto proposto recentemente dai Damageplan, i Nostri cercano di riprenderne l'impatto ed il riffing, nonchè la struttura stessa delle canzoni, ma senza quella carica che nei succitati non è che fosse poi così spiccata. La brutta copia di un originale già sbiadito quindi. Le songs sono sterili giochetti da (finti) duri e tamarri, prive del benché minimo spunto creativo. La voce è graffiante e non ripudia certe inflessioni melodiche (You Wouldn't Know), ma il tutto scorre senza lasciare la minima traccia. I riff vorrebbero essere tosti unendo nu-thrash, hard-rock dal taglio alquanto moderno e southern, ma questo è un discorso trito, ritrito, e persino avariato. Alcohaulin' Ass è uno degli episodi che si salvano, ma sta troppo dalle parti dei Lynyrd Skynyrd. L'opener Hellyeah cerca di squoterci ed è una missione che porta a termine solo ai primi passaggi sulla piastra; qualcosina si salva poi sul finale, ma non ci si immaginino chissà quali miracoli. La sagra dello sbadiglio è servita. Gli Hellyeah puntano molto sulla (presunta) immediatezza di una proposta che non ha un gran bel niente da dire al giorno d'oggi, un'innocua "dimostrazione di potere" che da queste parti non c'è. Disco perfetto per le charts (in quanti si lasceranno abbindolare dai nomi coinvolti nell'operazione?), ma che non sarà poi tanto difficile che si impolveri e sprofondi in un meritatissimo oblio in tempi più brevi di quanto ci si possa immaginare.



RED SPAROWES / GREGOR SAMSA : Red Sparowes / Gregor Samsa (Split)
(Robotic Empire, 2006)



Qualche mese prima di fare il definitivo botto col recente (e meraviglioso) "Every Red Heart Shines Toward The Red Sun", i Red Sparowes pubblicano uno split con Gregor Samsa, eccelso compositore della scena post-rock/slow-core statunitense. Due composizioni a testa per un visionario viaggio che ha inizio tra le distese spaziali dei "passeri rossi", coi loro continui giochi tra spazi pieni e spazi vuoti, crescendo inesorabili di malinconica bellezza, ed epiche melodie che tuonano fragorose tra le maglie del vento. Albe radiose e foschie argentee prendono forma mentre le chitarre ne spianano il corridoio verso un abbacinante infinito. Due perle di classe estrema, come sempre. Non è da meno il coinquilino Samsa. La sua è una poetica onirica e riflessiva, piena di mestizia che non tracima mai nello sconforto più assoluto. Al suo interno risiede la speranza per una quiete interiore che non può non giungere senza un precedente imbrunire dell'io. I passi iniziali di Young & Old / Divine Longing sembrano richiamare il tema portante della soundtrack di "Twin Peaks", ma va da sè, semplici assonanze. Il canto di Gregor è estremamente confidenziale, levigato e placido seguendo una linearità melodica ricca di grazia. Le architetture delle sue composizioni si rivolgono alla maestosità degli archi, soprattutto nel solenne finale della già citata Young & Old, indubbiamente la migliore tra le due ivi incluse recanti la firma di Samsa. Vibrante e per certi versi anche toccante alla maniera dei Sigur Ròs di "Agaetys Birjuyn", una candida e dolce sorpresa.


JACK ROSE :
Jack Rose
(VHF, 2006)

Trasferitosi a Philadeplhia nei primi anni di questo nuovo secolo, Jack Rose, già componente del trio drone/noise Pelt, intraprende una carriera solista che ha come unico protagonista la sua sei corde. Questo eponimo lavoro è uscito lo scorso anno e consta di sette tasselli di blues acustico in cui il fingerpicking si incrocia con lo slide. Lirismo dai toni campestri, bucolici e solitari a cui viene dato vigore dal perenne strisciare dello slide, il quale plasma ora melodie fiammeggianti (Dark Was The Night), ora intarsi dalle tinte country (Revolt), ora movenze circospette ma allo stesso tempo intriganti (Levee), ora sobri temi tipici dello slow-blues (St. Luois Blues). Spirits In The House è un lungo percorso in lande meditative increspate da arpeggi a cascata, come se si stesse seguendo uno dei percorsi ascetici di Derek Trucks. Non per tutte le orecchie, ma senza dubbio un lavoro amabile.


VIRUS : Carheart
(Jester Records, 2003)



Chissà se sentiremo più parlare dei Virus. E non nego che tra queste parole si agita un velo di rammarico. Il chitarrista/cantante Czral è tornato di recente nei suoi Ved Buens Ende, appena ripresosi da quel drammatico volo da un palazzo di Oslo che stava per costargli la vita nel marzo del 2005. Per il momento, il progetto pare essere stato messo in stand-by a tempo indeterminato. Sorto nel 2000, l'anno successivo il marchio Virus esordisce con "The Drama Hour", riproposto nel 2003 con il titolo di Carheart sotto l'egida della Jester Records, etichetta gestita dai membri degli Ulver. La miscela del terzetto norvegese (sono della partita anche il bassista Plenum ed il batterista Esso) è parecchio complessa e stratificata. La chitarra è in perenne tensione tra accordi in minore di origine black metal e le dissonanze stranianti dei Voivod, la voce è declamatoria pur senza possedere il piglio del padrone, nonostante non manchi di incutere una certa reverenza. "Carheart" è un film in bianco e nero dove ogni tanto si scorge qualche macchia di sangue vivo rigurgitata dal sottosuolo. La fluidità a monte del discorso è un fatto sul quale non si può soprassedere, soprattutto se messo in relazione a suoni tanto spigolosi, a tracciati tortuosi dai ripetuti passaggi jazzati ma non per questo eccessivamente inestricabili. Hustler e 4 si risolvono su arpeggi sinistri che fungono da linea portante per tutto lo svolgimento. Ossessivi e dall'animo catastrofico, nelle loro trame risiedono abrasioni dal vago sentore industrial e progressioni ricamate direttamente sullo stoner. "Carheart" è invero un misterioso gioiello del sottobosco psych/prog contemporaneo. Affrontarlo è una vera goduria.





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